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Domenica, 19 Febbraio 2017 11:46

Sermone di domenica 19 febbraio 2017 (Marco 4,26-29)

Testo della predicazione: Marco 4,26-29

Gesù disse loro: «Il regno di Dio è come un uomo che getti il seme nel terreno, e dorma e si alzi, la notte e il giorno; il seme intanto germoglia e cresce senza che egli sappia come. La terra da se stessa porta frutto: prima l'erba, poi la spiga, poi nella spiga il grano ben formato. Quando il frutto è maturo, subito il mietitore vi mette la falce perché l'ora della mietitura è venuta».

Sermone

Care sorelle e cari fratelli,

siamo reduci da celebrazioni del 17 febbraio, che in quest’anno del 500° anniversario della Riforma si sono concentrate sull’essere “riformata” della nostra chiesa e sulla questione in che modo e in che misura noi siamo e restiamo legati a quanto ha preso l’avvio il 31 ottobre 1517 nella città di Wittenberg. In quest’ottica, il nostro testo può generare in noi qualche imbarazzo. La parabola di Gesù ci presenta la nascita e la maturazione del Regno di Dio come un processo analogo alla crescita del grano; ce la descrive quasi come un processo naturale, continuo, pacifico, inarrestabile. Per molti secoli, almeno fino a quel 17 febbraio 1848 che ugualmente abbiamo commemorato l’altro ieri, la storia della nostra chiesa non era affatto stata così. È stata una storia piena di insidie, piena di forze che non soltanto tagliavano ma cercavano perfino di estirpare le piante, una storia – per parlare in modo non parabolico – piena di distruzione, piena di sofferenza per chi si sentiva parte del Regno di Dio in questo senso. Oramai da più di 150 anni, in Italia le cose sono cambiate, anche se uno potrebbe dire che una vera libertà di far crescere il seme sparso da Dio non ci sia neanche adesso.

            Forse, però, ragionando così sulle parole di Gesù, rischiamo un fraintendimento. In realtà, i suoi tempi non erano più pacifici del XVI secolo o del nostro tempo, per niente. Il Nuovo Testamento stesso ci dà troppe testimonianze di speranze religiose smentite, di credenti perseguitati, di persone punite e sottomesse a violenza per un niente di fatto. Guardiamo dunque un po’ più da vicina questa parabola! Il primo punto da tener fermo è sicuramente che, essendo una parabola, la parola di Gesù non ci parla di natura, né di sviluppi naturali, ma, appunto del “Regno di Dio”. Gesù ci vuole far notare una realtà che è diversa da quella che è immediatamente davanti agli occhi, una realtà in cui si manifesta il potere di un “Regno” diverso, che agisce senza farsi sentire con la pesantezza del potere, adoperando invece un soffio leggero, per così dire. Dal momento che è Gesù che parla così, non dobbiamo neanche dimenticare che il messaggio di questo Regno avrebbe portato chi parlava in croce, per zittirlo nel modo più definitivo possibile. Il fatto soltanto che questa mossa non è riuscita, però, e la semplice constatazione che le parole di questo uomo sono rimaste conservate e che ci riflettiamo su ancora noi, il fatto che le sue parole si sono diffuse in tutto il mondo, ci può anche dare una prima idea di quel potere diverso dai poteri terreni che si nasconde dietro la formula del “Regno di Dio”. Non tutta la vita è potere, dunque, almeno nelle categorie che normalmente applichiamo al termine, e forse possiamo anche dire che la sopravvivenza di una chiesa come la Chiesa riformata delle valli ne sia una testimonianza. Ciò non toglie che sarebbe sbagliato identificare quel Regno di Dio con una sola chiesa, magari contro un’altra, perché vorrebbe dire entrare nel discorso del potere terreno. La forza di quel “Regno” è diversa: non si fa comune con nessuno che lo vorrebbe incorporare nei propri progetti, per quanto siano benpensanti. Questo vale anche per noi.

            Il centro della parabola è costituito, però, da un passo che dischiude un rapporto molto originale tra attività e passività. Quell’uomo di cui Gesù sta parlando getta il seme, va bene, ma poi non può più fare niente: dorme e si alza, di giorno in giorno, e intanto il seme germoglia, cresce, matura sotto l’impulso di una forza che non è di chi ha seminato. Al contrario, il seminatore non riesce neanche a comprendere oppure a strumentalizzare questa forza: è “la terra”, che “automaticamente” (dice così il testo greco) nutre e rinforza le piante. È vero: oggi siamo tentati di aggiungere le nostre conoscenze chimiche e biologiche, ma esse non tolgono nulla allo stupore che abbiamo sentito quando per la prima volta abbiamo messo un seme in terra, vedendo spuntare poi il germoglio. È una forza che non è nostra; possiamo distruggere, estirpare, anche tagliare, ma non possiamo creare. La vita che è attorno a noi (noi stessi compresi) non è opera nostra, ma vive, cresce, si espande e non si fa sottomettere alla nostra volontà.

             Il seminare, ovvero l’annuncio di una potenza diversa dalle potenze che conosciamo, è stata affidato, dunque, a una persona che da parte sua soccombe ma nel soccombere sparge il messaggio secondo cui in fin dei conti il criterio dei potenti di “questo” mondo non è quello definitivo – per quanto possa creare sofferenza. C’è una realtà diversa, più forte della violenza e della morte, e il solo fatto che oggi ci riuniamo e ascoltiamo queste parole, e che sia con tanto di incertezza, ne è un assaggio. Ciò che a noi resta è apparentemente poco: dormire e alzarci, guardare, farci stupire da ciò che accade senza che noi lo possiamo causare. In un sermone tenuto immediatamente dopo il rientro dalla Wartburg a Wittenberg nel marzo 1522, Lutero disse, alludendo evidentemente al nostro brano e mettendosi nei panni del seminatore: “Ho soltanto trattato la Parola di Dio, ho predicato e scritto. Non ho fatto altro. Mentre io dormivo e bevevo la birra assieme a Filippo Melantone e ad Amsdorff, la Parola ha fatto sì che fossero indeboliti tutti i suoi avversari”. Credo che Lutero colga nelle parole di Gesù una lezione di umiltà: il Regno di Dio non si diffonde per mezzi di potere ma esclusivamente attraverso un messaggio che stabilisce la giustizia e la grazia di chi è a noi nascosto e al tempo stesso a noi superiore, la giustizia e la grazia di chi ha già deciso, nonostante tutto, di volerci salvare. Che questo annuncio ci sia e incontri la fede non dipende da noi, non dipende dai nostri progetti e non è un fenomeno limitato ai “nostri”, alla “nostra” chiesa, ovvero a chi è con noi. È un processo che non è nelle nostre mani. Proprio in tempi in cui la retorica della crisi c’è dappertutto (anche per motivi molto dignitosi e condivisibili), ricordarci questo può essere un antidoto agli eccessi delle nostre preoccupazioni, dietro i quali spesso si nasconde una pretesa di potere e influsso esagerata. Ciò non toglie che abbiamo le nostre responsabilità, ed è bene parlarne, responsabilità per la chiesa di cui siamo membri, responsabilità nel mondo in cui viviamo e operiamo. Ma questa responsabilità è sempre una che è fondata su presupposti e su forze che non sono nostre. Che sollievo!

            Infine, ci sarà il momento della mietitura, il momento del “conto”, per così dire. Sono frasi apparentemente convenzionali che concludono la parabola, ma vale comunque la pena sentirle con attenzione. Per primo: un momento di mietitura ci sarà. Non ci possiamo illudere che il nostro tempo non abbia una direzione, un inizio e una fine, un momento in cui, in qualche modo, si fanno i conti e non si torna più indietro. Ma è ancora più importante vedere che la raccolta finale contempla quelle piante che sono cresciute così, senza essere messe su dal potere umano, magari senza aver dato dall’occhio a chi tanto di dava da fare per “creare” qualcosa. Ciò che conta in fondo non sono le nostre intenzioni e bravure, è ciò che è cresciuto mentre dormivamo e ci alzavamo, mentre bevevamo la nostra birra, oppure anche il nostro vino, a seconda dei gusti. Di nuovo, ci sarebbe tanto da dire delle nostre responsabilità, ma la nostra prima responsabilità sembra essere di non sopravvalutarci, di non fare di noi dei piccoli dei, qualcosa che ci potrebbe anche rendere più sopportabili l’uno verso l’altro. Se guardiamo le esperienze storiche della nostra chiesa da questo punto di vista, la parola di Gesù e il vissuto di chi ci è preceduto non sono neanche così lontani da altrettanto. Pur essendo debole nei confronti di poteri più forti, essa ha continuato a essere parte di quel campo di grano di cui Gesù ci parla. Ora le si pone la sfida di non voler diventare “attore nel campo”, di riconoscere che la tentazione del protagonismo c’è anche tra di noi, conservando invece la fiducia in quella forza nascosta che fa crescere il Regno di Dio, come ha sempre fatto, in questa chiesa ma anche fuori da essa.

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