Culto domenicale:
ore 10,00 Tempio dei Bellonatti
Numero di telefono del presbiterio: 0121.30.28.50
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Ai tempi di Gesù, i Sadducei affermavano che non vi è né risurrezione, né angeli, né spirito, invece i Farisei affermavano tutte e tre le cose. I Farisei erano assertori della risurrezione e avevano sviluppato dei modi per descrivere lo stato intermedio dei defunti. In quel mondo antico, nessuno immaginava che i morti fossero già risuscitati; la risurrezione indicava una vita corporea successiva all’attuale vita.
Circa lo stato intermedio, e cioè dove stanno e che cosa sono attualmente i morti, i Farisei rispondevano che i morti erano come angeli o spiriti. Ora sono “disincarnati”, in futuro riceveranno la nuova incarnazione.
Dunque, i Farisei non suppongono per un momento che qualcuno possa essere testimone di una risurrezione, perché essa sarebbe avvenuta per tutti, in un momento futuro. Essi si chiedevano se i morti, resi come angeli, che si trovano nello stato intermedio tra la morte e la risurrezione, potessero far visita a qualcuno.
I Farisei che non credevano nella risurrezione di Cristo, perché non era ancora il momento, tuttavia ritenevano che si poteva avere un incontro con l’angelo del defunto.
Dopo aver bussato alla porta d'ingresso, una serva di nome Rode si avvicinò per sentire chi era e, riconosciuta la voce di Pietro, per la gioia non aprì la porta, ma corse dentro ad annunziare che Pietro stava davanti alla porta.
Quelli le dissero: «Tu sei pazza!» Ma ella insisteva che la cosa stava così. Ed essi dicevano: «È il suo angelo». Pietro intanto continuava a bussare e, quand'ebbero aperto, lo videro e rimasero stupiti. Ma egli, con la mano, fece loro cenno di tacere e raccontò in che modo il Signore lo aveva fatto uscire dal carcere (Atti 12,13-17).
Pietro è stato appena liberato miracolosamente dalla prigione e va a trovare i suoi compagni discepoli. La frase «È il suo angelo», significa che i discepoli pensavano che Pietro era stato ucciso in prigione, non significa «È stato risuscitato dai morti». È un modo per riferirsi a quello stato intermedio, «angelico», in cui, mentre il corpo è morto e sepolto, la persona sussiste fino alla sua risurrezione.
Abbiamo detto che l’amore di Dio rivelato in Cristo è una realtà che determina tutto. Dove l’amore è sperimentato con forza, diventa impossibile l’autoaffermazione, l’autogiustificazione, l’opposizione a Dio e al prossimo. Dove l’amore determina tutta l’esistenza, allora è superata la lotta tra lo spirito e la carne, è superato il conflitto fra Dio e il mondo che gli è ostile.
La fede confessa già nell’oggi che Cristo è venuto a distruggere le opere del male, sebbene la nostra lotta continui, infatti il credente non è colui che ha pace in sé, ma colui che è in continuo travaglio tra il desiderio di bene e la debolezza della sua carne.
Infatti il bene che voglio, non lo faccio; ma il male che non voglio, quello faccio. Ora, se io faccio ciò che non voglio, non sono più io che lo compio, ma è il peccato che abita in me. Mi trovo dunque sotto questa legge: quando voglio fare il bene, il male si trova in me. Infatti io mi compiaccio della legge di Dio, secondo l'uomo interiore, ma vedo un'altra legge nelle mie membra, che combatte contro la legge della mia mente e mi rende prigioniero della legge del peccato che è nelle mie membra.
Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?
Grazie siano rese a Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore. Così dunque, io con la mente servo la legge di Dio, ma con la carne la legge del peccato. (Romani 7,19-24)
Questa è la nostra condizione di oggi, una sorta di realtà di schizofrenia vissuta dal credente reso capace, dall’amore di Dio, di operare il bene e, tuttavia, peccatore. Per certi versi, si tratta di una lotta, e la promessa della venuta nella gloria di Cristo, dà ai credenti la certezza che questa lotta finirà vittoriosamente. L’annuncio di questa vittoria definitiva di Gesù Cristo è il senso autentico dell’attesa apocalittica. Qui la potenza minacciosa e crescente delle tenebre deve essere vista come lo sfondo oscuro sul quale si irradia in modo tanto più chiaro la potenza di Gesù Cristo. Non la menzogna avrà l’ultima parola, ma la verità, non sarà l’odio a vincere, ma l’amore.
Non andiamo incontro alla notte, ma allo spuntar del giorno.
Gesù Cristo è la promessa della giustificazione da parte di Dio, una giustificazione non solo vissuta nel presente della nostra vita, ma pure come promessa di redenzione futura. Il Nuovo Testamento distingue nettamente tra quello che noi già siamo in Cristo e quello che saremo.
«Carissimi, ora siamo figli di Dio, ma non è stato ancora manifestato ciò che saremo. Sappiamo che quand'egli sarà manifestato saremo simili a lui, perché lo vedremo com'egli è» (I Giovanni 3,2).
Il discorso relativo al futuro non si esaurisce nella storia, come la diffusione dell’evangelo sulla terra o che le «porte dell’inferno» non prevarranno sulla comunità dei credenti, ma lo scopo finale, il telos, va oltre la storia umana.
Tuttavia, la chiesa ha sempre trovato difficile accogliere, nella sua essenza, l’eschaton, l’attesa della redenzione al di là della storia; al posto di esso subentrò il concetto dell’al di là, del paradiso e invece della risurrezione dei morti si parlò di immortalità dell’anima.
D’altra parte, l’attesa prossima della parousia, il ritorno di Cristo, era stata vista come una delusione dal momento che, l’attesa non aveva dato alcun risultato.
Aprirsi alla promessa del futuro rivolta da Dio al credente, significa rendersi conto che ci è data la possibilità di un futuro. L’eschaton ha il suo fondamento nel messaggio del Cristo crocifisso che è anche il Risorto. A partire dalla morte e dalla risurrezione di Cristo, è stata presa la decisione sul nostro futuro e su quello di tutto il mondo.
Vanno distinte a questo punto le tre opere dell’unico Dio.
La grande speranza d’Israele consisteva nel fatto che il popolo, seme di Abramo, Isacco e Giacobbe, si moltiplicasse e prosperasse. Perfino nella caduta, la speranza è rivolta nella procreazione:
Alla donna disse: «Io moltiplicherò grandemente le tue pene e i dolori della tua gravidanza; con dolore partorirai figli». (Genesi 3,16)
I figli, e dopi i nipotini, sono la maggiore benedizione divina, e il vivere abbastanza a lungo da vederli è una delle cose migliori in cui sperare.
Ecco, i figli sono un dono che viene dal Signore; il frutto del grembo materno è un premio. Come frecce nelle mani di un prode, così sono i figli della giovinezza.
Beati coloro che ne hanno piena la faretra! Non saranno confusi quando discuteranno con i loro nemici alla porta. (Salmo 127,3-5)Tua moglie sarà come vigna fruttifera, nell'intimità della tua casa; i tuoi figli come piante d'olivo intorno alla tua tavola. Ecco così sarà benedetto l'uomo che teme il Signore. (Salmo 128,3-4)
Vedere i propri figli morire era, al contrario, la più grave sciagura immaginabile. Far crescere la nazione e la propria famiglia era, quindi, una responsabilità sacra di ciascuno che esigeva perfino leggi specifiche che la salvaguardassero.
Per il pio israelita, la discendenza non era semplicemente il modo per tenere vivo il nome, ma il modo in cui si sarebbero adempiute le promesse di Dio, per Israele e per il mondo. Per questo la Bibbia dà molta importanza alle genealogie che alla nostra sensibilità sembrano noiose e addirittura lontane dalla religione.
Oltre alla famiglia, anche la terra, quella che Dio aveva promesso ad Abramo, faceva parte della speranza del futuro.
Questo era il motivo per il quale anche i profeti si concentravano sulla pace e sulla prosperità della terra (il paese dove scorre latte e miele). E se una persona può vedere che il popolo e il paese fioriscono, allora può anche andarsene in pace nella tomba.
Il tema della Risurrezione deve essere concepito all’interno della teologia della Speranza che rientra nell’ambito dell’escatologia, cioè l’attesa degli ultimi giorni. Il tema dell’escatologia, dunque, pone al centro della vita cristiana l’attesa del Regno di Dio. Il cristiano è una persona che ha “speranza”, nei confronti del male e della morte.
L’apostolo Paolo scrive:
Cristo morì per i nostri peccati, secondo le Scritture;
fu seppellito, è stato risuscitato il terzo giorno, secondo le Scritture» (I Corinzi 15,13-14)
L’apostolo fa riferimento alla consapevolezza di una visione ebraica tardiva concepita dopo il ritorno dall’esilio in Babilonia. Così, la risurrezione compare di rado nell’Antico Testamento, ed è assente nei popoli pagani.
Da ricordare che la risurrezione non fa parte della speranza pagana, ma unicamente del mondo ebraico. Essa, nell’A.T. appare di rado, tuttavia si distinguono tre fasi che hanno caratterizzato la convinzione circa la vita dopo la morte.