Culto domenicale:
ore 10,00 Tempio dei Bellonatti
Numero di telefono del presbiterio: 0121.30.28.50
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Conferenza del professore Lothar Vogel, docente di Storia del Cristianesimo nella Facoltà valdese di teologia di Roma.
Cinquant'anni fa, quando ci celebrava il 450° anniversario della Riforma, un titolo come quello che mi avete proposto per l'intervento di questo pomeriggio sarebbe stato impensabile. "Che cosa (non) è successo nella Riforma?" La formulazione, e in particolare il "non" tra parentesi, trasmette un forte senso d'incertezza sulla Riforma. E questo non è soltanto un problema di chi ha coniato il titolo; in realtà, quest'anniversario è generalmente caratterizzato da interrogativi: Che cos'è stata la Riforma? Quando ha cominciato e quando si è conclusa? Qual è il suo contenuto, ossia ciò che ne resta, il perno che giustifica la commemorazione e che ci può dare orientamento anche oggi?
Se sfogliamo le pubblicazioni uscite in stampa cinquant'anni fa, nel 1967, rileviamo un'atmosfera diversa, una sicurezza di sé che non abbiamo più. La pubblicazione programmatica della casa editrice Claudiana nel 1967 fu una traduzione di un testo di Karl Barth: "La Riforma è una decisione", curata dal pastore Gino Conte. Quel saggio era originariamente stato pubblicato nell'autunno del 1933, quando in Germania si annunciava la grande "battaglia sulla chiesa" tra i Cristiani tedeschi, che vedevano nel regime di Hitler una manifestazione di Dio nella storia, e quei gruppi che poco dopo avrebbero formato la Chiesa confessante. In una situazione in cui si annunciava la necessità di una scelta carica di conseguenze, Barth pose la domanda: "Quale contenuto, quale forza d'attrazione aveva la Riforma, da conferirle questa validità perenne (a quanto pare) nella nostra Chiesa evangelica?" La sua risposta fu che la Riforma aveva portato a una riaffermazione di un retto e puro insegnamento delle verità cristiane – "come da molti secoli non era più avvenuto" (p. 13). Tale insegnamento si contraddistingueva per "un pensiero e una parola scaturiti da una decisione già presa, un pensiero e una parola che, anche nel loro contenuto, non volevano essere altro che annuncio di tale decisione già presa, e della responsabilità che sorge di fronte a essa. Per l'uomo prendere una decisione significa farla finita una volta per tutte con il considerare varie possibilità e riflettere su di esse in modo da non scartarne nessuna; farla finita con la ricerca di una unità superiore, che includerebbe tutte queste possibilità, anzi con lo stesso preteso concetto di questa superiore unità". La decisione che si esprime in questa parola e che viene accolta nella fede non è riversibile: la "fede cristiana" costituisce un vincolo irrevocabile: "decidersi per Dio quale Signore dell'uomo", nel senso di un'alternativa tra Dio e mondo. Dogmaticamente, quattro aspetti della Riforma sono determinanti:
Nei confronti di questi principi imperituri, criteri come "cultura", "nazione", "personalità" oppure "religiosità" sono per forza secondari e ambigui. Secondo Barth, il rischio più grave è di non pensare più in termini di una decisione già presa, che autorizza alla resistenza "senza riserve" e "con allegrezza", ma di ragionare invece in termini di superiore armonizzazione, pretendendo una libertà umana di poter scegliere la fede, intesa come potenzialità naturale – attitudine rappresentata dalla chiesa cattolica (che al momento della pubblicazione del testo aveva appena stipulato un concordato con la Germania di Hitler).
Nella sua prefazione all'edizione italiana, il pastore Conte si espresse convinto circa la "palpitante attualità" del testo: "L'ecumenismo, la presenza impegnata nel mondo, ecco i problemi che assorbono la riflessione e l'attività, la mente e il cuore dei cristiani, oggi. [...] Si cerca d'evitare l'aut-aut; l'alternativa che impone una decisione non è conforme allo spirito del secolo." Pur concedendo "profonde differenze" tra i Cristiani tedeschi del 1933 e le esitazioni evangeliche del 1967, egli enucleò tra i due fenomeni l'analogia di una ricerca di "sintesi", valutata come contraria all'essenza della Riforma. La scelta alla quale la Riforma chiama può dunque essere descritta come segue: "Decidersi a che? A credere a Dio, più che alla Chiesa e alla storia. Ad amare Dio, prima che la Chiesa e la società. Per sapere intendere rettamente la Chiesa e la storia. Per sapere servire rettamente l'uomo nella chiesa e nella società."
In maniera non dissimile, altri autori del 1967 come Valdo Vinay e Vittorio Subilia videro nella chiesa valdese un agente di "verità evangelica" di fronte a un cattolicesimo romano, il cui rinnovamento, mediante il II Concilio vaticano, non aveva comunque portato a un superamento di problemi cruciali come il ministero del Papa oppure la mariologia. Oggi, invece, non è soltanto perché abbiamo dimenticato ciò che sapevamo cinquant'anni fa oppure per buonismo ecumenico che fatichiamo a fare proprie queste parole. Il motivo più profondo delle nostre precauzioni risiede in una percezione diversa di noi stessi, in quanto chiesa, in quanto agenti di "verità", in quanto comunità di credenti. Ed è per questo che ci chiediamo con una certa perplessità: "Che cosa (non) è successo della Riforma?" Stasera vorrei concentrare la nostra attenzione su due aspetti:
"Sotto il tuo illustrissimo nome – così il 31 ottobre 1517 scrive all'arcivescovo Alberto di Magonza l'Eremitano di Sant'Agostino Martin Lutero dell'università di Wittenberg – circolano indulgenze per la fabbrica di San Pietro". In questa lettera, alla quale le 95 tesi erano allegate assieme a un sermone sulle indulgenze, Lutero denuncia che la predicazione delle indulgenze produca nella popolazione attese erronee di salvezza. Inoltre, egli avverte l'arcivescovo che dovrà farsi carico della responsabilità pastorale per la diffusione di queste false speranze tra il popolo, sedotto a un illusorio senso di sicurezza "attraverso queste favole e promesse false di perdono". La citazione focalizza elementi centrali della Riforma wittenberghese: un'attitudine critica nei confronti delle convenzioni religiose, una preoccupazione pastorale per la salvezza, tutto questo rivendicando la teologia accademica come sede di un discorso in cui questi criteri sono adoperati ai fini di una distinzione tra speranza fondata e illusione. La lettera chiude con affermazioni leggibili o come preoccupazione per la reputazione dell'arcivescovo o come una velata minaccia. Lutero lo invita a ritirare le istruzioni per la campagna indulgenziaria, che erano state pubblicate sotto il suo nome, "affinché non si alzi qualcuno che in libriccini pubblicati [editis libellis] confuta i predicatori e il libriccino [ovvero le istruzioni], il che sarebbe vergognoso per la tua illustrissima sublimità e che temo molto che accadrà se non vi si pone rapidamente rimedio".
Nel 1546, pochi mesi dopo la morte di Lutero, il suo fidato collega Filippo Melantone darà alle stampe la versione secondo cui quel 31 ottobre 1517 Lutero ha affisso nel 95 tesi alla porta della chiesa del castello di Wittenberg per invitare a una solenne disputa. Assieme all'apparizione di Lutero davanti alla dieta imperiale di Worms nel 1520 ("Eccomi, diversamente non posso!"), questa scena è diventata un elemento cruciale della storiografia e memorialistica del XIX e XX secolo sulla Riforma. Fu in quest'atto che Lutero manifestò ciò che aveva scoperto come "verità" della fede cristiana; fu in quest'atto che nacque un tipo nuovo di fede cristiana: non più sommessamente ubbidiente alla chiesa gerarchica ma vincolata esclusivamente nella propria coscienza, di fronte a una parola di Dio che interpella personalmente. Sull'affissione delle tesi è in corso un dibattito, da quando nel 1968 il ricercatore cattolico Erwin Iserloh aveva contestato la storicità della narrazione di Melantone. Presa alla parola, anche la parte finale della lettera di Lutero citata prima presuppone che a quel 31 ottobre le 95 tesi sono un testo riservato, non pubblicizzato, dal momento che Lutero evoca una contestazione con i mezzi di comunicazione a disposizione come un'eventualità non ancora avvenuta. A ciò corrisponde in qualche modo che allo stato attuale non siamo a conoscenza di una stampa delle tesi contro le indulgenze prodotta a Wittenberg nell'autunno 1517.
In ogni caso, l'impatto della critica di Lutero alle indulgenze sull'opinione pubblica è stato immediato e forte. Già nel corso del novembre le sue tesi erano conosciute alle corti sassoni del principe elettore Federico il Savio e del duca Giorgio e ancora nel 1517 sarebbero state stampate, senza autorizzazione da parte di Lutero, a Lipsia, Norimberga e Basilea. Al contempo, le affermazioni di Lutero circa il suo ruolo nella diffusione delle 95 tesi non sono univoche. Nei confronti della corte del principe elettore, il teologo di Wittenberg dichiara ripetutamente di aver voluto evitare che a corte si fosse a conoscenza del testo prima che arrivasse in mano al suo destinatario, Alberto di Magonza, ciò per non creare l'impressione che il principe elettore, per il quale l'arcivescovo della casata Hohenzollern era un concorrente dinastico, sarebbe il mandante della polemica. In una lettera personalmente indirizzata a Federico, scritta però a più di un anno di distanza dagli eventi, Lutero dice perfino che «nessuno, neanche tra gli amici più intimi, è stato a conoscenza di questa disputa». D'altronde, egli riferisce al vescovo Gerolamo Schultz di Brandeburgo, diocesi alla quale la città di Wittenberg apparteneva, di aver «pubblicamente [publice]» invitato alla disputa sulle indulgenze, chiedendo inoltre un parere scritto ad alcune persone dotte, in modo che la diffusione delle tesi non sarebbe avvenuta indipendentemente dall'azione di Lutero. Quello che sappiamo comunque con certezza è che quel 31 ottobre 1517 la sua lettera, conservata oggi a Stoccolma, è stata spedita – e attraverso questo canale le 95 tesi arriveranno presto a Roma e si avvierà il processo a carico del loro autore. Resta vero ugualmente che in retrospettiva Lutero stesso valuterà quel giorno del 31 ottobre 1517 come l'inizio della Riforma.
Prima di farci travolgere dalla nostalgia per i bei tempi in cui sapevamo ancora che cosa allora era successo, vogliamo dare almeno un'occhiata alla teologia delle 95 tesi! Esse si presentano come interpretazione dell'invito alla penitenza che secondo gli Evangeli inaugura l'attività pubblica di Gesù. Secondo Lutero, la penitenza richiesta da Gesù deve durare per tutta la vita: «Gesù, dicendo "Fate penitenza", volle che fosse penitenza tutta la vita dei credenti». Per quanto riguarda la motivazione di questa tesi, nelle spiegazioni (Resolutiones) che darà nel 1518 Lutero si avvale del metodo filologico per spiegare che l'imperativo μετανοεῖτε, usato nei Vangeli e reso con «fate penitenza», esprime un ri-orientamento della mente, che rende in latino con «transmentamini» («lasciatevi trasformare la mente»). Questa traduzione trasforma un'espressione di azione attiva in una formulazione passiva, congeniale cioè al suo orientamento anti-pelagiano (la giustificazione davanti a Dio avviene, dal punto di vista umano, «mere passive»). Inoltre, l'atto momentaneo di ri-orientamento, traducibile con "conversione", è ora spiegato come uno stato duraturo. Ovviamente, Lutero integra nel suo concetto di penitenza tutta la fase di vita successiva alla conversione, il che filologicamente non è ben motivato ma mostra in che misura egli abbia fatto sua un'idea mistica di penitenza continua del "simul iustus et peccator". Ciò che preme a Lutero di sottolineare è che questa penitenza che dura per tutta le vita non può essere identica all'amministrazione del sacramento, perché, a dirla in breve, a volte bisogna anche uscire dal confessionale. Letta così, però, la parola di Gesù relativizza le pretese della chiesa capeggiata dal Papa di mediare la salvezza. Nella 58a tesi Lutero spinge avanti il discorso fino al punto di affermare che i meriti di Cristo e dei santi, rappresentati dall'Evangelo, sono trasmessi «sine Papa» («senza Papa»); la penitenza chiesta da Gesù e il sacramento penitenziale della chiesa sono dunque due cose diverse! D'altronde, Lutero contesta anche un'idea totalmente interiorizzata di penitenza. Per lui resta basilare che l'annuncio della giustificazione venga «da fuori», ovvero dal «prete», come dice nella settima delle 95 tesi. Dal momento che l'uomo, essendo peccatore, non può salvare se stesso, anche un'idea di penitenza puramente interiore e individuale è secondo Lutero illusoria, perché l'interiorità è altrettanta peccatrice del corpo. Ci vuole un'istanza terrenamente sperimentabile in cui la Parola sia annunciata – nelle sembianze della predicazione e dei sacramenti. L'esteriorità e materialità della chiesa garantisce, dunque, che l'annuncio giunga «da fuori» e preserva i credenti da ciò che Lutero considerava l'entusiasmo. Rientra nello stesso quadro di riferimento la sua attenzione alla ragionevolezza del discorso teologico: non è casuale che davanti alla dieta di Worms egli dichiari di voler cedere soltanto a chiare testimonianze bibliche e a evidenti argomenti di ragione. Per Lutero, la ragione non è uno strumento atto a salire verso Dio nella speculazione ma un criterio discorsivo indispensabile, senza il quale la comunità non avrebbe neanche la possibilità di giudicare e valutare una predicazione. Le 95 tesi, dunque, mostrano un Lutero meno enfatico e individualista di quanto la convenzionale memorialistica faccia pensare. In tal senso la crisi della narrazione monumentale su di lui consente anche di riavvicinarsi al suo pensiero.
Un secondo aspetto caro alla storiografia della Riforma è l'affermazione di una "riscoperta della Bibbia" dopo secoli in dimenticanza. È vero che Lutero stesso ha inteso così il suo operato, ma anche questa visuale restituisce la realtà storica soltanto se si indica che cosa sia stato «riscoperto» con la necessaria precisione. All'alba della Riforma del XVI secolo, la Bibbia era onnipresente nella cultura occidentale. Nelle chiese, ma anche fuori da esse, i contenuti delle Sacre Scritture furono veicolati tramite rappresentazioni iconiche, liturgiche, letterarie ed esistenziali assai variegate. Perfino i primi libri a essere stampati nel 1454/56 furono Bibbie (prima la Vulgata latina, poco dopo anche una versione in tedesco, e il fatto che ne siano state prodotte tirature considerevoli e continue ristampe mostra il loro successo sul mercato. L'autorità delle Scritture fu anche riconosciuta dalla teologia accademica del tempo, ovvero dalla Scolastica, pur con qualche distinguo che riguardava il rapporto tra il testo biblico e l'interpretazione normativa che ne dava la chiesa. Attorno al 1500 una rinnovata attenzione al dettato letterale della Bibbia, in corso sin dal XIV secolo, venne ancora rafforzata dallo svilupparsi della filologia umanistica. D'altronde, la Bibbia era anche considerata come un fattore di pericolo. Del teologo Bartolomeo da Usingen, presso cui aveva studiato all'università di Erfurt (1507-1511), Lutero trasmette il detto secondo cui la Scrittura dà «l'occasione a ogni tipo di insurrezione». Quest'affermazione riflette la vicinanza della zona, in cui Lutero visse, con la Boemia: era stato John Wyclif a rivendicare la «sufficienza» della Bibbia per il governo della chiesa, declassando tutto il diritto canonico a livello di legislazione umana e, in questo senso, relativa. La ricezione di questo pensiero da parte di Jan Hus e dei suoi successori aveva ispirato la "rivoluzione hussita", ovvero un capovolgimento dell'ordine ecclesiastico e sociale. Reagendo alle crociate anti-hussite, le truppe rivoluzionarie avevano anche invaso le zone circostanti, Sassonia compresa. Nella seconda metà del XV secolo si era perfino costituito in Boemia un ente ecclesiastico nuovo, completamente staccato dall'istituzione gerarchica e animato dall'idea di un ritorno alla vita apostolica originale: l'Unità dei Fratelli boemi. Le censure e i divieti di diffusione di versioni della Scrittura in traduzione vernacolare si spiegano in base alla preoccupazione che la Bibbia potesse essere usata contro l'ordine esistente. Lutero si formò, dunque, in un periodo e in una zona tali che nelle sue pagine la devozione per la Bibbia e l'intensa spiritualità, che aspirava alla salvezza promessa, si associarono ad un senso di rischio.
Nei Discorsi a tavola, Lutero ripete alcune volte uno schema di ricordo autobiografico, secondo cui il suo primo incontro con la Bibbia avvenne nella «biblioteca», durante gli studi a Erfurt. Per lui, l'impatto di quest'esperienza è stato duplice: egli scopre la narrazione di Anna, madre del profeta Samuele (1 Sam 1), ma prende anche atto anche della non corrispondenza della Bibbia con il lezionario della messa dominicale. Si tratta dunque di una scoperta legata alla presenza più diffusa di Bibbie come esemplari prodotti a stampa, tecnica che Lutero, infatti, caratterizza come un dono di Dio in chiave escatologica. Secondo lo schema autobiografico dei Discorsi, Lutero aveva l'occasione di studiare tutta la Bibbia soltanto dopo essere entrato nel convento degli Eremitani di Sant'Agostino, diventando poi un «buon localis biblicus», ovvero uno che trovava intuitivamente una sentenza biblica sul foglio giusto. Non sembra, però, che il suo ingresso nel convento sia stato principalmente motivato dal desiderio di leggere la Scrittura. Pur riferendo di aver dato via in quel momento quasi tutti i libri in suo possesso e di essersi dedicato alla Scrittura, Lutero stabilisce tra l'entrata nel convento e lo studio della Bibbia un nesso cronologico, non motivazionale.
Nei corsi sui singoli libri della Bibbia, in particolare sui Salmi e sulla Lettera ai Romani tenuti a Wittenberg negli anni 1513/16, Lutero sviluppa i termini fondamentali della sua teologia all'interno di una scuola di pensiero legata alla congregazione d'osservanza dell'ordine degli Eremitani di Sant'Agostino, guidata dal suo predecessore e fautore Giovanni von Staupitz. Nel 1516/17, quest'ultimo sviluppò la sua idea – prettamente agostiniana – della predestinazione nei termini di una teologia biblica, rinunciando a qualsiasi riferimento esplicito ai teologi medioevali. A tal riguardo, la teologia di Wittenberg si mostrò all'altezza del suo tempo: anche Erasmo da Rotterdam contrappose la «filosofia di Cristo» ricavata dagli scritti apostolici alla teologia scolastica. Per quanto riguarda Lutero, la sua teologia si contraddistinse per l'approccio filologico innovativo. Già nelle sue lezioni sul Salterio degli anni 1513/15 egli si avvalse del nuovissimo Psalterium quincuplex dell'umanista francese Jacques Lefèvre d'Étaples e recepì da lui il concetto di un unico senso letterale delle Scritture, identico all'intenzione del loro vero autore, che è lo Spirito santo. Si tratta dunque di un senso letterale pneumatico, distinto da uno puramente carnale. In termini affini al De spiritu et littera agostiniano, la stessa lettera scritturale, che in sé è «morta», diventa testimonianza dello Spirito laddove Costui lo consente; tale fondazione pneumatologica del senso letterale giustifica l'integrazione della filologia nel discorso teologico.
Il secondo strumento che Lutero utilizzò già in questo corso fu la traduzione latina dei sette salmi penitenziali in base al testo ebraico, pubblicata da Johannes Reuchlin nel 1512, che ispirò quella revisione della terminologia teologica che sarebbe diventata determinante per la sua teologia. Nella spiegazione che dà del Salmo 32,1 («Beati quelli le cui iniquità sono perdonate e i cui peccati sono coperti»), Lutero, seguendo Reuchlin, rende la prima parte del versetto con «fiens levatus crimine», ovvero «beato chi viene prosciolto dal reato», e la seconda con «fiens opertus peccato», ovvero «chi viene coperto rispetto al peccato». Il significato di questa traduzione secondo la teologia di Lutero si ricava da due aspetti: anzitutto, la parola «fiens», che rende due participi passivi nel testo ebraico, esprime che la beatitudine è raggiunta «mere passive», come Lutero rilevava già in questa sede. Inoltre, citando Salmo 51,7, dove i due termini ebraici tradotti da Reuchlin con «crimen» e «peccatum» sono applicati allo stesso fatto, Lutero interpreta le due parti del versetto come univoche, ponendo in rilievo, però, la distinzione tra il «reato», dal quale il beato è prosciolto, e il «peccato» che viene «coperto», senza essere, cioè, materialmente annientato. In tal modo, il ricorso al dettato del testo ebraico giustifica l'affermazione di una continuità di peccato anche nello stato successivo all'ottenimento del perdono. Nella prima parte, l'accenno al proscioglimento e ancora più il termine iniquitas ("non equità") usato nella Vulgata evocano già, senza che la parola ci sia, un'idea di giustizia applicabile alla stessa persona che resta pur sempre peccatrice. È dunque la filologia del testo ebraico che fornisce a Lutero gli strumenti per proporre un concetto di giustizia "imputata" al credente che è «simul iustus et peccator». La giustizia dichiarata da Dio e la persistenza del peccato riguardano sempre l'uomo intero e non ne circoscrivono solo degli aspetti parziali: l'uomo «beato» è interamente prosciolto ed è al tempo stesso uno, il cui peccato è soltanto «coperto». Il rapporto, dunque, tra giustizia e peccato non è sostanziale ma prospettico: l'uomo è giusto agli occhi di Dio e peccatore agli occhi suoi.
È sulla stessa scia che, già nelle lezioni sui Salmi e poi in quelle sulla Lettera ai Romani, Lutero rivede il concetto di «giustizia di Dio» (Rm 1,17). Secondo lui – e a grandi linee è difficile dargli torto – la teologia scolastica tendeva a interpretare il termine «giustizia», come farebbe spontaneamente anche un lettore odierno, come una virtù di equità ai sensi dell'Etica nicomachea di Aristotele. In quest'ottica, la «giustizia di Dio» sarebbe la sua virtù esercitata in sede di giudizio e posta in dialettica con la sua «misericordia». In vista di un giudizio finale condotto secondo un tale concetto di «giustizia» divina, il processo soteriologico è stato interpretato come infusione non dovuta (cfr. Rm 5,5) di un habitus virtuoso, che secondo Aristotele dovrebbe essere acquisito con la pratica propria. In seguito, però, il credente stesso deve adoperare questo habitus per poter essere considerato un giusto. Lutero invece, interpretando il passo Rm 1,17 (in Cristo «la giustizia di Dio è rivelata da fede a fede»), fece riferimento alla definizione di «giustizia di Dio» data da Agostino proprio in De spiritu et littera: «quella la quale impartendo [Dio ci] fa diventare giusti, così come la salvezza di Dio è quella con cui [ci] fa diventare salvi». Questa definizione è poi avvalorata dall'argomentazione filologica. Diventa la chiave di volta il riferimento ad Ab 2,4 («il giusto per la sua fede vivrà»), versetto letto alla luce di Rm 3,28, dove la fede è presentata da Paolo come modalità esclusiva di giustificazione dell'uomo, in contrapposizione alle opere. Secondo l'apostolo, la giustificazione avviene dunque in termini di passività, non di attuazione di un presupposto virtuoso. Di conseguenza, il concetto di giustizia documentato nella Lettera ai Romani è diverso da quello aristotelico. Nello specifico, il termine «giustizia di Dio» non esprime una virtù ma un fattore relazionale: «Nel Vangelo soltanto è rivelata la giustizia di Dio, ovvero chi sia e diventi giusto innanzi a Dio e come questo avvenga: soltanto per la fede con cui si crede nella parola di Dio». Secondo Lutero, quando Paolo evoca la manifestazione della giustizia di Dio nel Vangelo di Cristo si riferisce al manifestarsi della sua potenza salvifica, non a un criterio giudiziale rinnovato e magari acuito. Anche dal punto di vista umano, questa giustizia non è una virtù da intendersi come criterio delle proprie azioni, ma gli è «aliena» (come dirà Lutero più tardi), perché costituita da Cristo in croce.
In tal modo, il metodo filologico-teologico e la liberazione da un'idea di giustizia propria da realizzare davanti a Dio, vissuta come opprimente anche da contemporanei di Lutero che in seguito avrebbero scelto la fedeltà alla chiesa romana, vanno di pari passo. Se vogliamo dunque parlare di una "riscoperta della Bibbia" da parte di Lutero, è opportuno rilevare che si tratta di un approccio esegetico rinnovato: non un approccio associativo oppure immediato (oggi forse diremmo "biblicista"), ma "ragionato", informato, motivato. Il "principio scritturale" della Riforma non si contrappone dunque alla ragione, intesa come principio discorsivo, ma all'idea che un'istituzione ecclesiale possa imporre delle norme all'infuori della testimonianza biblica.
La commemorazione della Riforma è un paradigma di quel fenomeno che il filosofo post-moderno Jean-François Lyotard ha chiamato una "grande narrazione". Nel XIX/XX secolo l'azione di Lutero, condensata nell'affissione delle 95 Tesi, è stata interpretata come l'atto fondatore di quella modernità protestante all'interno della quale ci si collocava – oppure dalla quale si prendevano enfaticamente le distanze. Nel primo XX secolo, l'immediatezza del rapporto Lutero-oggi fu rivendicata in particolare dai teologi della Luther-Renaissance ispirata dallo storico del cristianesimo Karl Holl di Berlino, il quale identificava nella dottrina della giustificazione per fede soltanto il messaggio centrale della Riforma e di Lutero. Secondo lui questa era una dottrina diametralmente opposta alla sensibilità del tempo, che si esprimeva in tentativi di giustificazione per opere rese possibili dalla chiesa istituzionale (facienti quod in se est Deus non denegat gratiam). Attraverso Holl, il resoconto autobiografico del vecchio Lutero del 1545 sulla sua "scoperta" del senso paolino del termine "giustizia di Dio" divenne la chiave ermeneutica per interpretare il suo operato e la Riforma nel suo insieme. Alla luce di questa scoperta, il riformismo precedente, che tradizionalmente aveva un posto d'onore nella storiografia protestante, apparse come maldestro moralismo, in modo che l'idea di una cesura epocale da collegare con l'inizio della discussione sulle indulgenze fu ancora rafforzata. È vero che qualche dubbio tra l'immediatezza del rapporto tra "Lutero" e "noi" è emerso già nel XIX/XX secolo, anche perché nel resoconto del 1545 la "scoperta" è ricordata in una fase chiaramente successiva all'inizio del dibattito sulle indulgenze. Ci fu dunque chi diceva che in realtà Lutero avesse innescato il confronto sulle indulgenze senza essere ancora giunto alla piena maturazione teologica. In realtà, la sua interpretazione del termine "giustizia" è già presente nei corsi anteriori al 1517, il che mostra i limiti del suo resoconto autobiografico. L'equazione Riforma-modernità/"noi" soffrì ulteriormente a causa di una fiorente ricerca cattolica su Lutero, che focalizzava le radici medioevali del riformatore (anche per ridimensionare la sua importanza). In Italia, il modernista Ernesto Buonaiuti definì la Riforma del XVI secolo perfino come una "seconda Riforma", d'importanza decisamente inferiore della "prima Riforma", di cui erano stati i protagonisti gli italiani Gioacchino da Fiore e Francesco d'Assisi. In ambito protestante, questo modello delle due Riforme fu rimodellato dopo la II guerra mondiale da Giovanni Miegge e Amedeo Molnar, con una valutazione più positiva, però, della Riforma del XVI secolo. Ma anche altri storici allargarono il concetto di Riforma, fino a estenderlo dal XIII al XVIII secolo (Ozment, Wallace), ridimensionando così le caratteristiche epocali di quel 31 ottobre su cui riflettiamo. L'attacco di Iserloh alla narrazione sull'affissione delle tesi ha preso di mira, dunque, una memorialistica già in crisi. Per onestà intellettuale e non soltanto per rispetto delle condizioni ecumeniche che viviamo oggi il ritorno alla "grande narrazione" di una volta ci è impedito – il che vale per la "grande narrazione" della Riforma ma ugualmente per quelle altre della "Nazione" oppure del comunismo marxista. Sì, siamo diventati più disorientati; in ambito protestante a volte si sente la preoccupazione che il termine "Riforma" possa diventare un "empty signifier" – concetto creato da Claude Lévi-Strauss per termini usati "per rappresentare una imprecisata quantità di significazione, in sé vuoto di significato e quindi adatto ad essere caricato di qualunque significato". Dunque: che cos'è "Riforma" oggi e che cosa non è? Non è che le chiese protestanti abbiano oggi a questo interrogativo una risposta forte e condivisa.
Detto ciò, si pone dunque una seconda domanda: ma perché dare spazio e dedicare energie a questo anniversario? Molto soggettivamente vorrei dare alcune giustificazioni provvisorie:
1) L'erosione delle "grandi narrazioni" non è di per sé una perdita, perché ci ha resi più sensibili per quelli "dell'altra sponda" che nell'ottica della "grandi narrazioni" erano "altri", avversari o gente rimasta indietro. Abbiamo dunque buoni motivi di proteggerci da false nostalgie.
2) Per la ricerca sulla Riforma c'è ancora tanto da fare, anche per comprendere meglio il nostro presente. Vorrei soltanto menzionare alcuni aspetti: la percezione e prassi del "gender"; l'effettiva gestione del dissenso – anche di quello generalmente anti-religioso (sempre più forte dalla II metà del Cinquecento); la fede vissuta, al di là delle norme; fenomeni di inter- e trans-religiosità; sviluppi trans-nazionali (per fare un esempio soltanto: non credo che finora la Riforma boema del XV secolo abbia nella storiografia europea il posto che le spetta. Trattare questa materia significa anche dare congedo a quella "grande narrazione", ovvero leggenda metropolitana, secondo cui Lutero ha frantumato un cristianesimo occidentale in sé coeso e armonioso); la ricerca sugli anniversari della Riforma (dal 1617!) – un ambito di ricerca in piena fioritura, che riflette bene il senso di problematicità in cui ci troviamo.
3) Infine, da teologo protestante credo che valga la pena vedere che l'impulso dato da Lutero è nato dalla lettura attenta e metodica della Bibbia, ovvero da una lettura disposta a confrontare i propri preconcetti religiosi con la testimonianza che ci viene da questo libro e che a volte è decisamente meno "religioso" e più "vitale" che si vorrebbe pensare.