Culto domenicale:
ore 10,00 Tempio dei Bellonatti
Numero di telefono del presbiterio: 0121.30.28.50
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La grazia nella storia
L'idea di predestinazione come sorta di teatro delle marionette, in cui Dio dal cielo fa ballare gli umani come burattini, può essere superata solo con il riferimento alla grazia di Dio.
La teologia cattolica ha cercato di correggere questa idea errata di Dio introducendo il pensiero della libertà dell'essere umano. Ha spiegato che Dio non è un burattinaio perché le sue decisioni sono relativizzate dalle scelte dei credenti, ma così facendo ha creduto di risolvere il problema dei due estremismi: i pelagiani da un lato e i riformati dall'altro. In realtà non è combinando la volontà di Dio con quella umana che si esprime il carattere dialettico della predestinazione, essa invece va inquadrata come una espressione della relazione d’amore di Dio.
Il momento dell'elezione
La centralità di Cristo non può scomparire. Non si può parlare di predestinazione senza parlare di Cristo. Infatti, noi sappiamo di essere eletti da Dio e amati solo all'interno dell'opera di Gesù Cristo; senza Cristo questo non potrebbe accadere. Gesù è la rivelazione di Dio, egli è «la via, la verità e la vita» anche per quanto riguarda il mistero della nostra elezione.
Gesù Cristo è il riferimento dei credenti, in lui abbiamo la certezza di essere nelle mani di Dio, di avere la garanzia della nostra esistenza e la comunione con lui. Perciò l'apostolo Paolo può dire: «Chi ci separerà dall'amore di Cristo? Sarà forse la tribolazione...?».
Per Karl Barth, tutto ciò non significa che noi possiamo vedere, in Gesù, rappresentato l'amore di Dio; noi non vediamo in Cristo la prova dell’amore e della misericordia di Dio, ma è la persona stessa di Gesù che racchiude il mistero della predestinazione. Cristo non è solo lo specchio su cui vedere riflesso il disegno di Dio; Cristo è colui in cui tutto avviene, è colui in cui ogni decisione è presa e attuata; è Cristo stesso la decisione, l'unica, eterna.
In sostanza, non vi sono livelli diversi: Dio da una parte e Gesù dall’altra; non vi è cioè la volontà di Dio che elegge l’uomo e poi Gesù che annuncia questa elezione. Gesù non è solo colui che porta una comunicazione da parte di Dio, non è il messaggero della predestinazione. Gesù è l'autore della predestinazione, egli è la possibilità, la garanzia, il fine. Senza Gesù Cristo non ci sarebbe né elezione, né predestinazione; l'uomo cercherebbe ancora il senso della sua vita nella sottomissione al destino e nella superstizione.
Una impostazione cristiana del problema
Che significa per i credenti di oggi parlare della predestinazione? Come esprimerla in termini comprensibili alla nostra fede?
Per proseguire la nostra riflessione, innanzitutto bisogna sostenere la seguente tesi:
La predestinazione non è un problema filosofico,
ma una espressione di vita religiosa.
Il problema non si risolve in termini di ragionamento e di logica. Con la logica ci siamo immessi in un dilemma senza soluzione: se la predestinazione è una scelta divina assoluta, l'uomo non è libero di scegliere e diventa un burattino nelle mani di Dio. Al contrario, se ammettiamo la libertà decisionale dell'uomo ci troviamo a negare l'onnipotenza di Dio dal momento che l'uomo deciderebbe anche contro la divina volontà.
Destino e fatalismo
Un grosso equivoco sta alla base della seguente concezione comune: il termine «pre-destinazione» è identificato con l'idea del destino.
Seconda tesi:
La predestinazione esprime un pensiero religioso assolutamente diverso da quello del destino.
Che cos'è il destino? «Il susseguirsi degli eventi considerato come predeterminato, immutabile e indipendente dalla volontà umana». Una sorta di filosofia dell'inevitabile, di un susseguirsi meccanico degli eventi della vita in cui l'uomo non ha alcuna influenza.
Negli antichi, greci e latini, il destino è inteso come «sorte», l'insieme delle esperienze e degli avvenimenti che caratterizzano la nostra vita. La raffigurazione ingenua della vita venne profondamente trasformata quando entrò nell'uso comune una nuova parola: il fato, il destino, la Tyche dei greci, il Fatum dei latini.
Karl Barth tratta il tema dell'«elezione gratuita» nel volume II/2 della sua Dogmatica ecclesiale. Tratta il tema della predestinazione non più in riferimento alla salvezza, come si era fatto dalla Riforma in poi, ma lo inserisce nel capitolo su Dio, dopo la Trinità e prima della creazione. Per Barth, l'elezione è un problema che riguarda Dio e non l'uomo. Ritiene sia un errore credere che la dottrina della predestinazione sia la dottrina dei predestinati, anziché la dottrina di Dio che «predestina»; Barth ritiene sia un errore fare della predestinazione una dottrina antropologica perché la ritiene solo teologica.
Per Barth, parlare dell'elezione di Dio come di un essere supremo che elegge in virtù della sua libertà, significa parlare non del Dio biblico; l'elezione non è infatti la decisione oscura, insindacabile di una divinità misteriosa che resta avvolta nell'oscurità, ma è l'atto di amore di Dio che riconcilia con sé l'umanità.
«La dottrina dell'elezione deve insegnarci anzitutto che Dio ha scelto di volgersi verso la sua creatura, decidendo di essere per lei un amico e un benefattore. Questa è la sostanza dell'elezione. L'annunzio di questa decisione divina è dunque, una buona novella...»
L'elezione quindi esprime il mistero di Dio nella sua realtà più profonda, esprime il fatto che Dio può qualificarsi soltanto come colui che ama e che elegge.
La scelta di Dio fondamentale consiste nell'essere liberamente ciò che è: amore, non per sé... Dio sceglie di amare, liberamente... per essere amato lui stesso, liberamente, volontariamente dalla sua creatura.
Dio è quindi amore e grazia, parlare dell'amore di Dio e della riconciliazione significa però parlare di Gesù Cristo, egli rappresenta la garanzia della nostra elezione.
I caratteri peculiari della teologia di Calvino non si concentrano esclusivamente nel problema della predestinazione come molti sostengono, ma Calvino accentua la regalità di Cristo, l'opera dello Spirito Santo, la santificazione della vita cristiana e, più di tutti, la sovranità di Dio e del carattere assoluto della sua opera.
Calvino sostiene:
«Non saremo mai così chiaramente persuasi che la fonte della nostra salvezza è la misericordia di Dio, finché la sua elezione eterna non ci sia anch'essa chiara; essa infatti è il termine di riferimento per valutare la grazia di Dio».
Per Calvino, la predestinazione è la coscienza dell'elezione divina che diventa garanzia di salvezza, ma anche vocazione. Se Dio ha preso in mano la vita dei suoi figli, nessuno può arrestare l'opera che egli sta compiendo.
Bisogna ricordare che Calvino è un avvocato, cresciuto nel mondo delle leggi e non in Convento come Lutero. Per Calvino la fede non si deve solo vivere a livello di convinzione personale, ma inquadrare, definire in termini oggettivi.
Nella sua Istituzione Cristiana del 1536, Calvino accenna soltanto alla predestinazione nel paragrafo che riguarda la chiesa. Molti credenti che avevano abbandonato la chiesa romana e che si domandavano se erano ancora nel popolo di Dio o no, Calvino risponde:
«La chiesa è il popolo degli eletti di Dio, non può dunque perire. La sua salvezza è connessa con l'elezione di Dio. Coloro che Dio elegge li affida alla custodia del figlio suo Gesù Cristo... possono certo cadere e peccare, ma non possono essere perduti».
Pelagio e Agostino
Siamo nel V secolo, Agostino è vescovo africano Pelagio, monaco inglese. Pelagio, dà importanza alla responsabilità e al ruolo della libertà del cristiano, svuota così di significato l'elezione, la predestinazione e la grazia stessa. Per Pelagio l'uomo sarebbe capace di operare il bene e riconosce alla natura umana una concezione ottimistica, per lui la predestinazione si riduce al fatto che Dio conosce anticipatamente i meriti che ognuno potrà vantare per garantirsi la salvezza. La maggiore delle grazie che Dio ha dato, è per lui il libero arbitrio.
Agostino prende posizione contro le tesi di Pelagio e afferma:
- che il peccato è e rimarrà una realtà definitiva dell'essere umano;
- che la salvezza è data soltanto per i meriti di Cristo e non quelli umani;
- che la grazia di Dio è data senza condizioni, senza, cioè, meriti;
- che l'amore di Dio è rivolto all'umanità gratuitamente e senza meriti;
- che Dio ha scelto noi, nel suo amore infinito, prima che noi avessimo la fede.
Agostino era molto paolino, anche se ne rivede la teologia. In Paolo, la predestinazione era un protendersi verso il futuro della fede, ora diventa una questione teologica, non più una espressione della fede che riguarda la comunità dei credenti che vive e cammina verso il Regno di Dio attraverso le prove e la sua testimonianza, ma una questione che riguarda Dio in sé; una espressione di speranza diventa espressione di una volontà divina astratta; non è più messaggio, ma dottrina.
Da annuncio di grazia, la predestinazione diventa oggetto di speculazione.
Gli scolastici
Ufficialmente la chiesa riconobbe le idee pelagiane come eretiche, e anche se le idee agostiniane avevano vinto, tuttavia il popolo visse la sua fede in modo pelagiano, si preoccupò cioè di trovare delle garanzie per la propria salvezza attraverso i meriti. Credere diventò sempre più sinonimo di accettare definizioni teologiche, dogmi, verità astratte.
Per la scolastica l'interesse della dottrina della predestinazione si concentrò su due punti: sulla relazione fra la prescienza di Dio su tutto ciò che accade e libera volontà dell'uomo.
Tommaso d'Aquino accoglie il merito come presupposto predeterminato per la beatitudine eterna.
Introduzione
La Predestinazione nella Bibbia occupa un posto poco ampio, vi sono allusioni ma non una vera e propria dottrina organicamente elaborata. Nell'Antico Testamento essa è pressoché inesistente, anche nella predicazione profetica; è assente nei Vangeli, ma è sviluppata solo nella predicazione apostolica, in particolare quella dell’apostolo Paolo.
L'elezione di Israele
La coscienza della predestinazione nasce in Israele nel contesto del pensiero dell'elezione. L'elezione è una delle realtà centrali dell'Antico Testamento: Dio ha scelto il popolo di Israele fra gli altri popoli per farne il suo popolo. Questa scelta divina è avvenuta prima ancora della sua esistenza storica nella persona di Abramo e, al momento dell'uscita dall'Egitto, per mezzo di Mosè chiamato da Dio a questa missione.
Non ci sono motivazioni addotte alla scelta di Dio, l'unica è che l'elezione ha come fondamento Dio stesso, la sua sovrana libertà di agire come vuole.
«Io vi ho amati», dice il Signore; «e voi dite: "In che modo ci hai amati?". Esaù non era forse fratello di Giacobbe?» dice il Signore;eppure io ho amato Giacobbe» (Malachia 1,2).
Nel bene e nel male, Israele ha coscienza della sua elezione. Sa che la sua esistenza dipende da questa libera scelta che Dio ha fatto. Però nell'Antico Testamento, Dio non è presentato come un potere assoluto che decide e impone la sua volontà. Gli scrittori biblici hanno piena coscienza che "elezione" non significa potere, ma amore. Nello scegliere il popolo di Israele come popolo suo, Dio ha voluto esprimere il carattere gratuito della sua misericordia e la sua bontà. Perciò Israele si considera «am Yahweh», cioè popolo di Dio, un popolo santo così come lo definisce Esodo 19,5-6:
«Dunque, se ubbidite davvero alla mia voce e osservate il mio patto, sarete fra tutti i popoli il mio tesoro particolare; poiché tutta la terra è mia; e mi sarete un regno di sacerdoti, una nazione santa».
Dunque l'elezione di Israele è in funzione dell'umanità intera, non si tratta di un rinchiudersi nei limiti di un nazionalismo religioso, ma di un segno che Dio pone nella storia in vista delle nazioni. Così Dio stesso affida ad Abramo questa vocazione e missione:
Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò; io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra» (Genesi 12,1-3).