Culto domenicale:
ore 10,00 Tempio dei Bellonatti

Numero di telefono del presbiterio: 0121.30.28.50

Pastore Giuseppe Ficara

Consacrato nel 1992, ha svolto il suo ministero nelle chiese di Riesi, Caltanissetta, Agrigento, Trapani e Marsala, Palermo.
Pastore a Luserna San Giovanni da Agosto 2013.

 

Indirizzo: Via Beckwith 49, Luserna San Giovanni (TO), 10062, ITALIA

Tel/Fax: (+39) 0121/30.28.50

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Testo della predicazione: Lettera ai Romani 6,3-8

Ignorate forse che tutti noi, che siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Siamo dunque stati sepolti con lui mediante il battesimo nella sua morte, affinché, come Cristo è stato risuscitato dai morti mediante la gloria del Padre, così anche noi camminassimo in novità di vita. Perché se siamo stati totalmente uniti a lui in una morte simile alla sua, lo saremo anche in una risurrezione simile alla sua. Sappiamo infatti che il nostro vecchio uomo è stato crocifisso con lui affinché il corpo del peccato fosse annullato e noi non serviamo più al peccato; infatti colui che è morto è libero dal peccato. Ora, se siamo morti con Cristo, crediamo pure che vivremo con lui.

Sermone

Care sorelle e cari fratelli, in questo brano della Bibbia, l'apostolo Paolo parla della morte e le dà un significato positivo: infatti non parla della nostra morte fisica, ma di una morte che diventa il presupposto per una vita da vivere pienamente, qui e ora, una vita che ha senso, degna di essere vissuta: questo significa, per l’apostolo, la vita eterna. Egli, quindi, parla di una morte che in realtà è nascita, culla della vita.

Ma in che senso?

Innanzitutto vediamo che Paolo mette in rapporto la morte di Gesù Cristo con la nostra morte, e parla della nostra morte non come di qualcosa che deve ancora avvenire, ma che è già avvenuta.

Quando?

L’apostolo, in sostanza, vuole parlare dell’avvenire dei credenti, del loro futuro, partendo dal passato: l'avvenire dei credenti è un cammino alla cui fine non c'è la morte, ma la risurrezione; un cammino che parte dalla morte di Gesù sulla croce, una morte che ci riguarda, che ci coinvolge, che ci fa partecipare a quell’evento in modo che anche noi possiamo dire di aver “vissuto la morte”, e che perciò ci attende è la risurrezione.

Quindi il destino dei credenti in Cristo è legato al destino di Cristo, alla sua morte e alla sua risurrezione. Questo è il fondamento della nostra fede: Dio, nonostante la nostra mancanza di fede, la nostra ribellione, ci considera morti con Cristo (perché Cristo è morto per noi) e sceglie di essere dalla nostra parte, con noi, per noi con la risurrezione di Cristo e nostra.

Testo della predicazione: I Corinzi 1,18-25

La predicazione della croce è pazzia per quelli che periscono, ma per noi, che veniamo salvati, è la potenza di Dio; infatti sta scritto: «Io farò perire la sapienza dei saggi
e annienterò l'intelligenza degli intelligenti». Dov'è il sapiente? Dov'è lo scriba? Dov'è il contestatore di questo secolo? Non ha forse Dio reso pazza la sapienza di questo mondo? Poiché il mondo non ha conosciuto Dio mediante la propria sapienza, è piaciuto a Dio, nella sua sapienza, di salvare i credenti con la pazzia della predicazione. I Giudei infatti chiedono miracoli e i Greci cercano sapienza, ma noi predichiamo Cristo crocifisso, che per i Giudei è scandalo, e per gli stranieri pazzia; 24 ma per quelli che sono chiamati, tanto Giudei quanto Greci, predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio; poiché la pazzia di Dio è più saggia degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini.

Sermone

Care sorelle e cari fratelli, il brano biblico che l’apostolo Paolo scrive e che abbiamo ascoltato è un discorso di rottura, un forte testo di contestazione. A noi possono suonare ovvie le parole di Paolo: «Noi predichiamo Cristo crocifisso». Ma l’apostolo vuole richiamare i credenti di Corinto a non predicare più su altre fantasie e personaggi illustri perché solo Cristo è stato crocifisso per noi e non un altro.

L’apostolo parla della fatto che la fede nel Cristo crocifisso è centrale e i credenti di Corinto avevano perso questa centralità. L’apostolo è molto pungente nel cercare di frantumare una immagine di Dio distorta; egli vuole Paolo ricollocare la croce al suo posto, da dove è stata tolta via.

Perché tutto questo? Cos’era successo in quella chiesa?

Nella chiesa di Corinto vi erano divisioni, alcuni si schieravano con la teologia di un predicatore di nome Apollo, altri con quella di Cefa, l’apostolo Pietro, altri ancora con Paolo stesso. L’apostolo ricorda invece che la fede non si fonda né sulla teologia di uno, né sulla filosofia di un altro, né sulla scienza, né su qualche persona, spirituale per quanto possa essere.

Una parte dei credenti di Corinto fondava la propria fede nei miracoli: Dio c’è solo dove interviene con opere potenti, e non c’è dove non ci sono miracoli. «Dio ha fatto questa guarigione, vedete? Vuol dire che è dalla nostra parte».

Altri credenti si stupivano davanti a tale ingenuità e fondavano il loro cristianesimo su tesi filosofiche che spostavano la fede nell’ambito della ragione.

Paolo mette scompiglio sulle tesi dei due gruppi perché nessuno di loro sentiva il bisogno di credere e annunciare che Cristo era morto sulla croce.

Per l’apostolo Paolo, l’annuncio dell’Evangelo parte da un fondamento certo: Cristo che è stato crocifisso. Annunciare altro significava annunciare un cristo diverso, non quello che Dio aveva mandato e nel quale, Dio si era donato all’umanità.

Domenica, 19 Giugno 2016 15:57

Sermone di domenica 19 giugno 2016

Testo della predicazione: Esodo 33,18-23

Mosè disse: «Ti prego, fammi vedere la tua gloria!» Il Signore gli rispose: «Io farò passare davanti a te tutta la mia bontà, proclamerò il nome del Signore davanti a te; farò grazia a chi vorrò fare grazia e avrò pietà di chi vorrò avere pietà». Disse ancora: «Tu non puoi vedere il mio volto, perché l'uomo non può vedermi e vivere». E il Signore disse: «Ecco qui un luogo vicino a me; tu starai su quel masso; mentre passerà la mia gloria, io ti metterò in una buca del masso, e ti coprirò con la mia mano finché io sia passato; poi ritirerò la mano e mi vedrai da dietro; ma il mio volto non si può vedere.

Sermone

Cari fratelli e care sorelle, un filosofo francese degli anni ’60 scriveva che “senza viso non si è”; non si è nei confronti della società, del mondo, nei confronti di tutti, perché senza viso non si può mostrare la propria identità, il proprio umore, i propri pensieri, non si potrebbero instaurare dialoghi, rapporti, e questo in effetti è, in alcune popolazioni, il senso del coprirsi il viso, in particolare da parte delle donne: significa rinunciare a instaurare rapporti, a costruire dialoghi, confronti, amicizie; significa mantenere distanza, restare anonimi, impersonali, senza nome. Senza il viso non c’è sorriso, pianto, gioia, dolore che possano essere condivisi.

Nella Bibbia ci aspetteremmo che la richiesta di Mosè di vedere il viso del Signore sia presto esaudita, invece Dio dice: «chi vede il mio viso non può vivere, muore». Perché Dio si nega?

A questo punto, facciamo un passo indietro per notare che il nostro brano è preceduto dall’episodio nel quale Israele si costruisce un vitello d’oro da adorare, da riconoscere come dio con un suo corpo e un volto. E questo succede proprio mentre Dio si rivela a Mosè come un Dio che parla, che parla di libertà attraverso le dieci parole scritte sulle tavole.

Il popolo non vuole sentire il cuore di Dio, il suo amore che si rivela nella sua Parola, il popolo vuole vedere e toccare e sentirsi appagato da una superficialità scandalosa e scellerata.

Vedere e toccare esclude la proposta di una scelta di fede o di non-fede; il popolo non vuole andare oltre il primo sguardo, vuole solo una verità lapidaria costituita da una immagine che non ti pone alcun dubbio perché è evidente, nessuna ricerca, nessun approfondimento, nessuna necessità di andare oltre, di scrutare, di incuriosirsi: qui non c’è libertà di scelta, libertà di coscienza, ma c’è solo l’evidenza dei fatti costituita da una immagine, che sia artefatta o no, finta o simulata, l’importante è fermarsi lì, non andare oltre, non indagare.

Testo della predicazione: Marco 10,13-16

Divenne sera e Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all'altra riva». I discepoli, congedata la folla, lo presero, così com'era, nella barca. C'erano delle altre barche con lui. Ed ecco levarsi una gran bufera di vento che gettava le onde nella barca, tanto che questa già si riempiva. Egli stava dormendo sul guanciale a poppa. I discepoli lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t'importa che noi moriamo?» Egli, svegliatosi, sgridò il vento e disse al mare: «Taci, càlmati!» Il vento cessò e si fece gran bonaccia. Egli disse loro: «Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?

Sermone

Cari fratelli e care sorelle, sebbene l’evangelista Marco ci voglia narrare il racconto della tempesta sedata, tuttavia, egli indugia in particolari che, a prima vista, sembrano insignificanti.

Innanzitutto un’informazione: «Divenne sera». Quando si fa sera le nostre faccende del giorno devono concludersi: è buio, siamo stanchi. La sera avverte che sta per arrivare la notte, l’oscurità, che è anche sinonimo di paura, di timore, di apprensione; la notte rivela tutta la nostra fragilità: l’impossibilità di affrontare qualcosa che non vediamo perché è buio; la notte rivela tutta la nostra impotenza, rivela le nostre paure.

L’evangelista ci vuole dire che i discepoli devono affrontare la tempesta quando è già buio nella loro anima, nel momento più alto della loro vulnerabilità.

Divenne sera, quindi Gesù congeda le persone che si erano fermate per ascoltare la sua predicazione e dice ai suoi discepoli in procinto di affrontare la notte: «Passiamo all’altra riva».

Gesù avrebbe potuto dire: «Troviamo un posto sicuro dove passare la notte». Invece Gesù chiede ai discepoli di affrontare la notte, chiede che accada un cambiamento nell’anima e nel cuore dei suoi discepoli. Gesù chiede di fare rotta verso altre mete piuttosto che rinchiudersi dentro le proprie sicurezze, chiede ai discepoli di prendere un’altra direzione, di cambiare progetti, di cambiare piani.

Testo della predicazione: I Giovanni 4,16b-21

«Noi abbiamo conosciuto l'amore che Dio ha per noi, e vi abbiamo creduto. Dio è amore; e chi rimane nell'amore rimane in Dio e Dio rimane in lui. In questo l'amore è reso perfetto in noi: che nel giorno del giudizio abbiamo fiducia, perché qual egli è, tali siamo anche noi in questo mondo. Nell'amore non c'è paura; anzi, l'amore perfetto caccia via la paura, perché chi ha paura teme un castigo. Quindi chi ha paura non è perfetto nell'amore. Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo. Se uno dice: «Io amo Dio», ma odia suo fratello, è bugiardo; perché chi non ama suo fratello che ha visto, non può amare Dio che non ha visto. Questo è il comandamento che abbiamo ricevuto da lui: che chi ama Dio ami anche suo fratello».

Sermone

Care sorelle e cari fratelli, l’autore della lettera di Giovanni riflette sul Dio che ci è stato annunciato da Gesù, e da questo annuncio scaturisce una definizione di Dio unica in tutta la Bibbia. Non dice come è fatto Dio, ma parla della qualità di Dio, dell’essenza di Dio, dell’essere di Dio. Dice: Dio è amore. Punto e basta. Altro non possiamo sapere sul Dio in sé.

Potremmo dire che Dio è onnipotente, onnisciente, onniveggente, tuttavia si tratta di categorie umane attribuite, in modo superlativo, a Dio. Il nostro autore biblico non si lascia ingannare dalla potenza o dalla sapienza o dalla capacità che gli umani possono, in qualche modo, possedere e poi trasferire queste qualità all’essere di Dio. Il nostro autore prova a considerare una realtà, di cui ha fatto l’esperienza, che reputa divina: è l’amore. Perché l’amore non è una realtà umana.

Per la Bibbia, l’amore è una realtà divina che irrompe nel nostro presente, nella nostra esistenza, nella nostra storia. È una realtà, attraverso la quale, Dio si rivela a noi. «Dio ha tanto amato il mondo, che ha mandato il suo unico figlio» (Gv. 3,16), vi è qui la consapevolezza che l’amore produce un movimento di Dio verso noi e di noi verso altri, da persona a persona. Si tratta di un movimento che non è fine a se stesso, perché Dio viene, in Cristo, in mezzo a noi, per farsi dono di sé. Questo è l’amore: un’azione un movimento verso l’altro/a per accoglierlo/a e donarsi a lui/lei.  

L’amore, dunque, non è semplicemente un volersi bene, non è vivere una tregua, non farsi la guerra, sopportare l’altro, tollerare chi è diverso, ma è farsi dono agli altri.

Questa è la definizione di amore nella Bibbia, non va mai interpretata in modo diverso. Il Dio che ama si dona, la persona che ama si fa dono agli altri.

Testo della predicazione: Romani 11,32-36

Dio ha rinchiuso tutti nella disubbidienza per far misericordia a tutti. Oh, profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza dì Dio! Quanto inscrutabili sono i suoi giudizi e ininvestigabili le sue vie! Infatti, "chi ha conosciu­to il pensiero del Signore? O chi è stato suo consigliere? O chi gli ha dato qualcosa per primo, sì da riceverne il contraccambio?". Perché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose. A lui sia la gloria in eterno. Amen.

Sermone

     Care sorelle e cari fratelli, è un inno quello che abbiamo letto, un inno di lode! E chi sta parlando è un animo entusiasta, un animo che ha scritto con l'ardore del fuoco. Si tratta dell’apice di un discorso che l'apostolo Paolo ha iniziato alcuni capitoli prima, un discorso che comincia molto pacatamente, in modo tiepido, ma che si ravviva e prende sempre più forza, terminan­do, qui al capito 11, in una splendida poesia che scaturisce dal profondo dell’anima.

     Si tratta di un ardore senza pari che la fede ha suscitato in lui. Spesso è proprio questo entusiasmo per Dio che ci manca perché ci siamo assuefatti alla parola “misericordia”, al messaggio dell’amore di Dio; ma qui l’apostolo vuole trasmettere anche noi oggi la sua gioia incontenibile, come incontenibile è l’amore di Dio e la sua bontà.

Ma cos'è che ci può infiammare, entusiasmare, cosa ci può scio­gliere la lingua, al punto da farci cantare e scrivere poesie come l’apostolo?

     L’inno di Paolo comincia con una espressione eloquente: «Oh!». Ma cosa dobbiamo dire per far sì che quelli che ci ascolta­no, e noi stessi, arriviamo ad esclamare questo «Oh!»?

Venerdì, 20 Maggio 2016 17:15

Lezione 6

Osservazioni conclusive

Le beatitudini sono riportate solo in Matteo e in Luca e contengono delle differenze sostanziali. Sono diverse anche di numero, diverse anche in parte per l'accentuazione, esse hanno, tuttavia, un significato comune.

Differenza

Le beatitudini di Matteo sottolineano il significato escatologico di queste sentenze, mentre quelle di Luca sembrano dar maggior enfasi alla qualità delle persone che Gesù dichiara beate e che sono anche l'oggetto delle beatitudini di Luca.

Questa differenza di enfasi, più che di significato, è espressa in una parola, ripetuta con insistenza nelle une e nelle altre: per le beatitudini di Luca l'avverbio «ora», è ripetuto quattro volte, in due beatitudini e in due «guai» (vv. 21 e 25): esso sottolinea l'urgenza della decisione, il valore dell'ora in cui Gesù appare e annuncia l'Evangelo del Regno, la contrapposizione del mondo che passa e di quello che viene.

Altrettanto caratteristica, nell'altro senso, è in Matteo la ripetizione del pronome autoi «autoí»: «Beati i poveri in spirito», ecc... perché ESSI, proprio loro, saranno saziati, ecc. Questo «autoí» scandisce enfaticamente tutte le sentenze, ad eccezione, forse, di quella dei facitori di pace (v. 9), ove, per pure ragioni testuali, l'«autoì» è incerto. È chiaro che Matteo vuole che si rifletta che proprio queste categorie di persone sono quelle cui è promessa la consolazione e la grande allegrezza del Regno dei cieli.

Questa accentuazione può dipendere dal fatto che in Matteo le beatitudini sono rivolte alla Chiesa, nel quadro della istruzione catechetica. Esse esprimono energicamente il rovesciamento dei valori operato dall'annuncio del Regno. Nei confronti del Regno che viene, non saranno avvantaggiati i ricchi, i potenti, i soddisfatti, i duri, gli audaci, ma i poveri nell'animo, i mansueti, i misericordiosi, i cuori trasparenti e sinceri, i riconciliatori... cioè proprio quelle categorie di persone che sono regolarmente perdenti nella vita e nella corsa al successo, alla ricchezza, al potere.

Proprio costoro, e non gli altri, si trovano in una situazione di privilegio nei confronti del Regno. E nei loro confronti, la grande espressione «il Regno dei cieli» è la pienezza positiva di ciò che a loro manca: è ciò che li attende, è l'eredità dei poveri, è la consolazione degli afflitti, è la misericordia divina assicurata ai misericordiosi, è la visione di Dio per i cuori sinceri, la gloriosa dichiarazione di filialità divina per i facitori di pace, il dominio con Dio per i perseguitati ed oltraggiati!

Venerdì, 20 Maggio 2016 17:12

Lezione 5

v. 10: «Beati i perseguitati per motivo di giustizia, perché di loro è il Regno dei cieli».

La beatitudine dei perseguitati fa un effetto di forte contrasto con le tre beatitudini precedenti che introducevano il tema della pace e dei figli di Dio. Essa ci ricorda che, per i discepoli di Gesù, la via della pace e della gloria è la via della croce e del martirio.

I discepoli si trovano ad avere così una profonda consapevolezza circa il loro destino, che va nella stessa linea dei giusti sofferenti le cui espressioni di dolore e di fiducia tornano molto frequentemente nei Salmi. Sono i fratelli di quei poveri, di quegli afflitti, di quegli affamati che abbiamo trovato nelle beatitudini del primo gruppo, ma con un riferimento più preciso. Questa beatitudine è comune, in parte anche a Luca, e si conclude con la stessa promessa della prima beatitudine “beati i poveri in spirito”. Questa beatitudine chiude la serie, come fa anche Luca, ripetendo la promessa della prima, vi è quindi un ritorno all'inizio.

Beati i perseguitati per motivo di giustizia: il testo greco ha il participio perfetto che significa letteralmente «quelli che sono stati e che ancora sono perseguitati». Non sappiamo perché Matteo usi il participio perfetto invece del participio presente. Ma nell'uso comune, il participio non ha tempo. Il verbo diwkw (diòko) ha il senso generale di perseguire un fine, e cioè

  • la giustizia (Romani 9,30-31):
    Che diremo dunque? Diremo che degli stranieri, i quali non ricercavano la giustizia, hanno conseguito la giustizia, però la giustizia che deriva dalla fede; mentre Israele, che ricercava una legge di giustizia, non ha raggiunto questa legge.
  • la pace (Romani 14,19):
    Cerchiamo dunque di conseguire le cose che contribuiscono alla pace e alla reciproca edificazione.
  • l'agápe (I Corinzi 14,1):
    Desiderate ardentemente l'amore, non tralasciando però di ricercare i doni spirituali, principalmente il dono di profezia.
  • il premio (Filemone 3,12-14):
    12Non che io abbia già ottenuto tutto questo o sia già arrivato alla perfezione; ma proseguo il cammino per cercare di afferrare ciò per cui sono anche stato afferrato da Cristo Gesù. 13Fratelli, io non ritengo di averlo già afferrato; ma una cosa faccio: dimenticando le cose che stanno dietro e protendendomi verso quelle che stanno davanti, 14corro verso la mèta per ottenere il premio della celeste vocazione di Dio in Cristo Gesù.
Venerdì, 20 Maggio 2016 17:09

Lezione 4

v. 8: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio».

Chi sono i «puri di cuore» che Gesù dichiara «beati»? In tanti brani del Nuovo Testamento si parla di coloro che sono semplici, cioè che non sono dediti a calcoli e a pensieri oscuri; che sono sinceri, cioè che non conoscono infingimenti e ipocrisie; che sono leali, cioè che non ricorrono a raggiri o furbizie; che sono chiari e trasparenti, cioè che possono essere esaminati alla luce del sole mostrando tutta la loro chiarezza cristallina. Si tratta di coloro che mantengono questo stesso atteggiamento in ogni circostanza: quando parlano, dicono solo: «Sì, sì; no, no» (Mt. 5,37); quando guardano, il loro occhio rimane limpido, non ottenebrato da cattivi pensieri, sia nei confronti della donna (Mt. 5,28), sia nei confronti del denaro e delle ricchezze (Mt. 6,19-22). Ovviamente, puri di cuore sono anche coloro che non hanno la coscienza sporca, che sono senza macchia, irreprensibili e integri (Fil. 2,15); coloro che hanno non solo il cuore pulito, ma anche le mani pulite (Giac. 4,8). 

Questo concetto di lealtà, di chiarezza, di sincerità e di semplicità è chiamato da Matteo «purezza di cuore», con un'espressione tratta dall'Antico Testamento. Infatti, nel Salmo 51,10 troviamo l'invocazione:

«O Dio, crea in me un cuore puro».

Nel Salmo 24,3-5 la purezza di cuore è un requisito essenziale per avere accesso al santuario del Signore.

Chi salirà al monte del Signore? Chi potrà stare nel suo luogo santo?
L'uomo innocente di mani e puro di cuore, che non eleva l'animo a vanità
e non giura con il proposito di ingannare.
Egli riceverà benedizione dal Signore, giustizia dal Dio della sua salvezza.

L'uomo puro di cuore è colui che non eleva l'animo a vanità o, secondo la TIILC, che non serve la menzogna, e che non giura con il proposito di ingannare. In maniera ben più radicale, il profeta Geremia parla addirittura di circoncisione dei cuori (Ger. 4,4).

Venerdì, 20 Maggio 2016 17:05

Lezione 3

v. 6: «Beati quelli che sono affamati e assetati della giustizia, perché saranno saziati».

In Luca 6,21 sono detti beati quelli che hanno fame, e viene loro promesso che saranno saziati.

Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati.

Che Matteo parli insieme di «affamati e assetati», come in certi passi dell'Antico Testamento, non è determinante; lo è invece la sua precisazione: «della giustizia». Il termine “giustizia”, in Marco è del tutto assente, mentre ricorre in Matteo sette volte, e in Luca lo si trova una volta sola (1,75), all'interno di un inno di forte impronta veterotestamentaria.

Egli usa così misericordia verso i nostri padri e si ricorda del suo santo patto, del giuramento che fece ad Abraamo nostro padre, di concederci che, liberati dalla mano dei nostri nemici, lo serviamo senza paura, in santità e giustizia, alla sua presenza, tutti i giorni della nostra vita. (Luca 1,72-75)

Vi sono dunque buone ragioni per ritenere che questa espressione sia un'aggiunta propria di Matteo. Già nell'Antico Testamento si fa volentieri ricorso alle immagini della fame e della sete per significare il desiderio della Parola di Dio (Amos 8,11).