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Domenica, 13 Novembre 2016 14:14

Sermone di domenica 13 novembre 2016 (Romani 8,18-25)

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Testo della predicazione: Romani 8,18-25

Io ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria che dev'essere manifestata a nostro riguardo. Poiché la creazione aspetta con impazienza la manifestazione dei figli di Dio; perché la creazione è stata sottoposta alla vanità, non di sua propria volontà, ma a motivo di colui che ve l'ha sottoposta, nella speranza che anche la creazione stessa sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella gloriosa libertà dei figli di Dio. Sappiamo infatti che fino a ora tutta la creazione geme ed è in travaglio; non solo essa, ma anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, gemiamo dentro di noi, aspettando l'adozione, la redenzione del nostro corpo. Poiché siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, l'aspettiamo con pazienza.

Sermone

Cari fratelli e care sorelle, nel brano che abbiamo ascoltato, l'apostolo Paolo riflette sul futuro che attende i credenti.

L'apostolo prende in considerazione dei momenti della vita cristiana: quelli tristi e quelli gioiosi. Quante volte siamo angosciati o ci sentiamo abbandonati al nostro destino a causa delle avversità e delle sofferenze della vita? Tante volte! Quante volte ci scoraggiamo e siamo tentati di rinunciare, di fermarci e smettere di lottare perché è davvero troppo dura? Tante volte!

E quante altre volte ci domandiamo perché Dio permette le sofferenze, i dolori, la fame, la crisi economica, l'ingiustizia… argomenti a cui spesso non riusciamo a dare una risposta convincente. Restiamo smarriti e qualcuno cerca di trovare nella Bibbia risposte a queste domande.

Ci sono persone che pensano ancora che la fede riservi loro un premio, quello di essere risparmiati da sofferenze, dispiaceri e dolori. L'apostolo, invece, cerca di spiegare che il fatto di essere credenti non ci risparmia dalle difficoltà e dalle oscurità della vita e del corso della storia.

Certo, ci si può ribellare, ma contro chi? Contro tutto il mondo? Contro Dio?

Perché no? Ma si tratta di una reazione che può far stare bene per un po’ perché trova un capro espiatorio per tutti i mali dell’umanità. Ma è una interpretazione di comodo che ci auto-giustifica, ci auto-assolve, come se tutti non partecipassimo a costruire la storia, bella o brutta, drammatica o serena che sia.

Dunque l’apostolo paragona le «sofferenze del tempo presente» alla «gloria futura», dice che non sono paragonabili alla gloria che ci attende. Tanto questa gloria è più grande, importante e profonda della sofferenza. La gloria viene dopo la sofferenza, è stato così per Gesù e così può essere anche per i suoi.

Ma non si tratta di un merito o di un mezzo per essere perdonati dai nostri peccati o per raggiungere il cielo!

La sofferenza può essere semplicemente la conseguenza di una persecuzione a causa della fede, e i valdesi nella storia hanno vissuto molte sofferenze, ma può essere anche conseguenza della fragilità e della debolezza della vita umana. Lo aveva capito Francesco d’Assisi quando diceva: «tanto è il bene che m’aspetto, che ogni pena m’è diletto». E così tanti credenti sono passati attraverso pene indicibili e prove della vita, ma con lo sguardo fisso in avanti, oltre, rivolto verso la meta, la gloria futura.

Certo, l’apostolo dice anche «Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio», dunque la gloria è qualcosa che riguarda non il presente, ma il futuro che ci sta davanti, il nostro avvenire.

Paolo espone così la nostra condizione umana di credenti, affermando: «Anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, soffriamo in noi stessi aspettando la liberazione…». Egli afferma sì che noi siamo oggetto della salvezza e delle attenzioni dello Spirito, ma aggiunge che questo non ci fa vivere già in cielo, liberi dalle avversità.

Il cielo, invece, è qualcosa che ci sta davanti, è il nostro futuro, è quello che ci attende. Anzi, la sua promessa già ci rasserena e ci permette di cominciare a prepararci alla gioia e alla pace che desideriamo. Sì, perché con Dio possiamo essere anche felici, ma ancora in modo parziale perché non è ancora accaduta la «redenzione del nostro corpo», cioè la liberazione totale; essa è qualcosa che attendiamo con pazienza; non solo noi ma perfino l'ambiente, tutta la creazione di Dio è partecipe della nostra attesa, anch'essa attende con speranza la liberazione dalla schiavitù della corruzione e del peccato che tutti viviamo a causa della nostra debolezza.

Anzi, siamo stati noi stessi ad assoggettare la creazione alla corruzione. Oggi noi ne siamo ancora più consapevoli dell’apostolo, e possiamo guardare il deplorevole stato in cui si trova la natura, lo è perché non l’abbiamo amata e rispettata, non l’abbiamo custodita, ma l’abbiamo aggravata, mutilata, contaminata in modo orrendo per trarre da essa un profitto effimero.

L’apostolo ci vuole dire che l’essere umano, con il suo peccato, ha trascinato nella sua folle caduta verso il vuoto, la buona creazione di Dio. Per questo essa aspetta la «manifestazione dei figli di Dio, nella speranza di passare anche essa dalla schiavitù alla libertà»: i credenti saranno liberati dalla corruzione? Dunque, lo sarà anche tutto il creato.

È veramente stupefacente e significativa questa immagine cosmica di attesa di Dio, come dire: «Tu non sei unico e solo, ma un tassello di un grande quadro, una goccia di un grande mare, una piccola parte di chi attende Dio».

Noi dunque, credenti nel Signore tendiamo verso la piena realizzazione della promessa di Dio, l'attendiamo, ma questa attesa è il nostro “oggi”, il nostro tempo, un tempo da vivere pienamente, un tempo in cui possiamo essere strumenti dell'azione di Dio.

Attendere tempi migliori non significa stare fermi, muti, indifferenti, con gli occhi chiusi e la bocca tappata, ma significa saper vedere, parlare, reagire, lottare, per la pace, la giustizia, la solidarietà, l’accoglienza, per l’amore, la gloria, tutte realtà che ci stanno davanti, si tratta di una sfida malgrado le sconfitte, i fallimenti, il dolore e la sofferenza che fanno parte della vita: sono le contraddizioni della storia, le sue debolezze e impotenze.

Gesù aveva detto: «Avevo fame, sete, ero in prigione, senza vestiti… e voi mi avete accolto» ha voluto dirci tutta l’importanza di riempire la nostra attesa di senso perché il giorno della gloria che attendiamo non è solo il giorno della liberazione, ma anche il giorno del riscontro, il giorno in cui sarà valutato il senso della nostra esistenza.

Malgrado difficoltà e prove, ogni momento della nostra vita deve essere riempito di significato: il dolore, il lutto, la povertà, la fame, la ricchezza, la speranza e l’attesa, tutto deve avere un posto, deve essere vissuto con dignità e rispetto, nella solidarietà, nell’accoglienza, nell’aiuto vicendevole.

Gesù si è identificato con gli ultimi, con coloro che soffrono, con i malati, i prigionieri, i poveri, perché fosse alleviato l’affanno, la pena, il travaglio, l’oppressione con il suo essere presente attraverso ciascuno di noi che incontra l’altro nell’amore.

Gesù ha voluto dirci, e con lui l’apostolo Paolo, che la sofferenza e il disagio dell’attesa possono essere alleviati.

Gesù non ha voluto dare un senso al dolore, ma ha voluto fare in modo che il dolore stesso fosse alleviato dalla solidarietà reciproca.

Dunque, Paolo invita i credenti a non cadere nel pessimismo: dice che i drammi umani non culmineranno nell'annientamento di tutto, ma sono solo come le doglie di una nuova nascita; sono solo i dolori della donna che partorisce. È bella questa immagine, ci rassicura, ci dà una speranza che si slancia verso traguardi lontani, non ancora presenti: «i travagli che stai attraversando porteranno a un nuovo che trasformerà la tua esistenza e quella del mondo. Vivi dunque con riconoscenza anche i frammenti difficili della tua esistenza».

Tutto questo ci incoraggia a non arrenderci mai di fronte all’inevitabilità della guerra, della sofferenza umana, del respingimento di tanti esseri umani che fuggono da un destino di morte, ci incoraggia a lottare per la pace, per la giustizia, per il rispetto dell’altro/a e della creazione stessa.

Gesù si è identificato con gli ultimi, perché potessimo capire che quello che attendiamo un giorno può avere nell’oggi la sua concretizzazione, benché parziale, può accadere già oggi come un segno che dà vigore alla nostra speranza.

Ci dia il Signore di vivere il senso e il valore dell’oggi, con la nostra fede attiva e partecipe, il nostro impegno e la nostra solidarietà nei confronti di un Cristo, che attendiamo sì glorioso, ma già presente in mezzo a noi, fragile e debole, ma che ci permette di rendere viva, già ora, la sua gloria per noi. Amen!

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Pastore Giuseppe Ficara

Consacrato nel 1992, ha svolto il suo ministero nelle chiese di Riesi, Caltanissetta, Agrigento, Trapani e Marsala, Palermo.
Pastore a Luserna San Giovanni da Agosto 2013.

 

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