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Mercoledì, 13 Gennaio 2016 12:53

Sermone di domenica 10 gennaio 2016 (Isaia 43,1-7)

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Testo della predicazione: Isaia 43,1-7

Così parla il Signore, il tuo Creatore, o Giacobbe, colui che ti ha formato, o Israele! Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome; tu sei mio!
Quando dovrai attraversare le acque, io sarò con te; quando attraverserai i fiumi, essi non ti sommergeranno; quando camminerai nel fuoco non sarai bruciato e la fiamma non ti consumerà, perché io sono il Signore, il tuo Dio, il Santo d’Israele, il tuo salvatore; io ho dato l’Egitto come tuo riscatto, l’Etiopia e Seba al tuo posto.
Perché tu sei prezioso ai miei occhi, sei stimato e io ti amo, io do degli uomini al tuo posto, e dei popoli in cambio della tua vita. Non temere, perché io sono con te; io ricondurrò la tua discendenza da oriente, e ti raccoglierò da occidente. Dirò al settentrione: «Da’!» E al mezzogiorno: «Non trattenere»; fa’ venire i miei figli da lontano e le mie figlie dalle estremità della terra:tutti quelli cioè che portano il mio nome, che io ho creati per la mia gloria, che ho formati, che ho fatti.

Sermone

Care sorelle e cari fratelli, il brano biblico del profeta Isaia che abbiamo ascoltato è in mezzo a due brani di giudizio e di condanna di Israele. Lì la relazione tra Dio e Israele appare in termini di ira e distruzione. Israele è descritto come cieco e sordo alla presenza di Dio.

Perché può succedere che in mezzo a una relazione così difficile con Dio ci possa essere un brano così rassicurante come quello che abbiamo ascoltato? Proprio perché il rapporto che Dio stabilisce con il suo popolo non poteva né doveva essere accolto con indifferenza o come l’occasione per pretendere privilegi speciali.

Quindi, una delle più dure espressioni di giudizio precede una delle più belle descrizioni dell’amore di Dio contenuta in tutta la Bibbia. Il messaggio è che la fede riconosce la presenza di Dio sia nel suo essere duro con i suoi figli, sia negli atti di liberazione che compie, perché in tutto ciò Dio è colui che esprime il suo amore.

Tutti sappiamo che l’amore può fiorire e consolidarsi quando la persona amata ricambia il sentimento. Perché l’amore non è mai una imposizione, ma una proposta, un invito alla reciprocità.

Nella Bibbia, anche le espressioni dell’ira di Dio, accompagnate sempre da affermazioni della sua fedeltà, rivelano continuamente l’impegno di Dio per un amore autentico e reciproco. All’opposto, tollerare l’arroganza umana non sarebbe affatto un gesto d’amore, ma di insensatezza.

Caliamoci adesso, per un momento, nei panni degli ascoltatori a cui il profeta si rivolge: si tratta di un popolo ancora esiliato in Babilonia, sono passati oltre 40 anni da quando è stato annientato dal re Nabucodonosor e le speranze di tornare nella terra promessa non ci sono più. Israele ha solo davanti a sé immagini di distruzione e morte, di sogni infranti e di progetti irrealizzabili.

Che cosa ardeva dunque nel cuore di questi esuli? Erano stati i loro peccati, la loro infedeltà al patto con Dio che li aveva fatti precipitare nel baratro disastroso, che li aveva privati del Tempio, della terra e della libertà. Allora avevano provato sconcerto e vergogna, il terrore di un futuro era ormai negato per sempre. Ma ora si apriva uno squarcio nel cielo e faceva breccia una speranza, un futuro nuovo che superasse per sempre la loro sofferenza e vergogna.

Ma a chi credere? Ai profeti di buona ventura? Avevano perso la credibilità, erano solo adulatori di folle, come quel certo Anania; essi insistevano con le loro stravaganti promesse di un intervento di Dio perfino mentre i babilonesi si aprivano un varco attraverso il muro di Gerusalemme per espugnarla, e poi ebbero pure il fegato di continuare a profetare con i loro messaggi rassicuranti e accomodanti tra le rovine fumanti della città.

In chi si poteva aver fiducia?

A fornire la risposta era la storia: erano degni di fede i portavoce di Dio che avevano avuto il coraggio di proclamare che la fonte dell’ira che si era abbattuta su Israele era di quello stesso Dio che aveva creato quello stesso popolo. La parola annunciata di Isaia non poteva che essere autentica perché egli non aveva avuto timore di fronte alla domanda «Chi ha abbandonato Giacobbe al saccheggio?», a ribattere «Non è stato forse il Signore? Contro il quale abbiamo peccato?».

Ora però tutto cambia, ora vi è la promessa di un nuovo inizio in una particella avversativa «ma»: Ma ora, così parla il Signore… non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome; tu sei mio!

Si tratta di una parola che toccava il cuore di coloro che erano confusi e minacciati dalle spietate potenze terrene che distruggono tutto sul loro cammino. È una parola che rinnova un’antica promessa, una parola che riporta all’epoca della schiavitù in Egitto da cui il Signore aveva permesso la liberazione. Dio aveva ascoltato il loro grido, li aveva liberati dagli oppressori e poi li aveva coinvolti in un rapporto personale nell’alleanza che si fondava sulla promessa: «Sarò il vostro Dio e voi sarete mio popolo».

Tutto ciò poteva succedere di nuovo?

Dio risponde «Io sarò con te», ed è una promessa.

La promessa è pronunciata direttamente dal cuore di Dio che vuole rassicurare il cuore spaventato del suo popolo, egli è il creatore di tutto, che ha creato tutto per amore, Egli è dunque colui che ama in modo incondizionato.

Qui, il motivo della speranza di un popolo sconfitto risiede in una promessa straordinaria: tu sei prezioso ai miei occhi, sei stimato e io ti amo.

E noi, oggi? Che cosa ce ne facciamo di questi sette versetti, in questo nostro mondo di poteri in lotta e di tragedie umane? Sappiamo bene che questo brano non è indirizzato solo agli ebrei e ai babilonesi antichi.

Gli esseri umani di ogni epoca si imbattono nella minaccia dell’annullamento, della negazione, della morte nelle sue miriade forme: la morte dei sogni, la morte delle speranze, delle certezze, della sicurezza, la morte del futuro. Queste sono le nostre paure che ci portano alla ricerca di una speranza autentica e vera.

Come gli ebrei antichi, anche noi oggi siamo davanti al male nel mondo. A suo tempo anche Gesù nella preghiera che ci ha insegnato ha incluso la richiesta: «Liberaci dal male», cioè liberaci dalla distruzione della speranza, dalla devastazione senza ritorno della nostra anima, liberaci dall’incontro con ciò che può azzerare il significato della vita, distruggere ogni futuro e consegnarci alla disperazione mortale.

Liberaci dal male: Gesù diresse l’attenzione dei discepoli verso Dio come il solo capace di dare speranza a chi riconosce la propria fragilità e la precarietà della propria vita.

Oggi molte sono le forze del male e della distruzione: le riconosciamo nella devastazione delle guerre, nelle persone costrette a migrare, come Israele in Babilonia, nei muri che vengono alzati per respingere, nelle carrette del mare che affondano, (40.000 morti negli ultimi anni), negli attacchi terroristici nei confronti di giovani e persone inermi, ma anche nella famiglia che si disgrega, nei sogni che si infrangono, nelle strutture politiche che cadono a pezzi, nella corruzione, nel malgoverno, nelle mafie che corrompono.

Il profeta Isaia ci invita a desiderare e ad annunciare quell’antica e autentica Parola di Dio che ci fa intravedere nel rifiuto dell’amore, quello di Dio, la causa di tutte quelle fratture che mettono in pericolo la vita da ogni lato.

Siamo invitati a vivere nell’orizzonte dell’amore di Dio che ci rende partecipi e capaci di amare, un amore che guarisce, che riconcilia, che getta ponti per unire ciò che era diviso. E ciò a partire dalla promessa che viene direttamente dal cuore di Dio: «tu sei prezioso ai miei occhi, sei stimato/a e io ti amo».

Tempo fa, due undicenni commisero, a sangue freddo, l’omicidio di un uomo. Una loro compagnetta fu intervistata e rispose con tristezza: «Avevano bisogno di qualcuno che li amasse e glielo dimostrasse, qualcuno che si prendesse davvero cura di loro». Era chiaro che la ragazzina avena qualcuno che le voleva bene. Ma, tragicamente, i due undicenni erano arrivati al termine della loro infanzia perché non avevano ricevuto il dono dell’amore.

Ma Dio ci dice: «Tu sei prezioso ai miei occhi, …io ti amo». È questo l’unico fondamento su cui possiamo costruire tutta la nostra vita e partecipare alla vita con gli altri, accanto agli altri, per gli altri. Questo è il messaggio che oggi il profeta ci offre, un messaggio che ci apre un futuro nuovo nel quale c’è la certezza di un mondo migliore. Amen.

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Pastore Giuseppe Ficara

Consacrato nel 1992, ha svolto il suo ministero nelle chiese di Riesi, Caltanissetta, Agrigento, Trapani e Marsala, Palermo.
Pastore a Luserna San Giovanni da Agosto 2013.

 

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