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Domenica, 10 Agosto 2014 13:46

Sermone di domenica 10 agosto 2014 (Romani 6,19-23)

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Testo della predicazione: Romani 6,19-23

Parlo alla maniera degli uomini, a causa della debolezza della vostra carne; poiché, come già prestaste le vostre membra a servizio dell'impurità e dell'iniquità per commettere l'iniquità, così prestate ora le vostre membra a servizio della giustizia per la santificazione. Perché quando eravate schiavi del peccato, eravate liberi riguardo alla giustizia. Quale frutto dunque avevate allora? Di queste cose ora vi vergognate, poiché la loro fine è la morte. Ma ora, liberati dal peccato e fatti servi di Dio, avete per frutto la vostra santificazione e per fine la vita eterna; perché il salario del peccato è la morte, ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore.

Sermone

Cari fratelli e care sorelle, l’apostolo Paolo parla un linguaggio metaforico perché il suo discorso sia più facilmente compreso dai credenti della chiesa di Roma, e da noi oggi. Parla di “carne”, parla di “membra”, di “schiavitù” e di “libertà”.

È consapevole che non si può parlare di Dio e della sua grazia senza che ciò sia frainteso da noi, perché viviamo dentro una logica umana che non ci permette di capire quella di Dio, tanto diversa dalla nostra.

Così, per permettere di capire che cosa è il peccato, Paolo vi contrappone la giustizia. «Se tu ti orienti in modo che la giustizia per tutti si compia, allora non ti presti al peccato; quando te ne freghi di realizzare una giustizia di cui tutti possono godere, allora stai consegnando il tuo corpo e l’intero tuo essere al peccato».

In realtà, l’apostolo sta cercando di incoraggiare i credenti di Roma a proseguire lungo una strada che non è facile, perché non ricevono il consenso dei loro concittadini che vivono dentro una logica di tornaconto, di interesse e di giovamento personale, piuttosto che umano e sociale. Perciò l’apostolo afferma: «Prestate ora le vostre membra al servizio della giustizia».

Essere credenti cristiani significa partecipare alla fede in Gesù Cristo, vivere una svolta, prendere parte a un cambiamento che porta dalla schiavitù alla libertà. In modo figurato, l’apostolo, permette di vedere nella morte di Gesù, la fine della nostra schiavitù al peccato, e nella sua risurrezione, il nostro ingresso nella terra della libertà.

Tutti noi, dunque, come credenti, partecipiamo a questo evento di Gesù attraverso l’esperienza della nostra conversione.

Che cos’è la schiavitù se non quella di chi non riesce più ad essere se stesso, ma si sente soggiogato e sopraffatto da dall’egoismo, dall’individualismo, dal compiacimento di sé e da una logica di auto-indipendenza da Dio? Questo è il peccato, si nutre di quella logica dell’indifferenza che ricerca solo il bene per sé, questa è schiavitù e quindi anche un “non vivere”.

La libertà invece, non è indifferenza, non è neutralità o indipendenza, non è neppure essere se stessi e basta, ma libertà significa vivere sotto la signoria di Dio e della sua giustizia.  Per questo l’apostolo afferma: «Ora, liberati dal peccato siete fatti servi di Dio». Ciò significa che il credente liberato non entra nella terra di nessuno o nella sua autonomia individualistica, ma egli è ora libero per servire Dio.

Quando Israele uscì dall’Egitto non rimase nel deserto, ma entrò in un’altra terra come popolo libero, ma anche come popolo di Dio, al servizio di Dio e della sua giustizia per coinvolge tutti.  

Per l’apostolo Paolo, la persona umana è sempre uno schiavo-servo (doulos), è sempre al servizio di qualcuno. Il credente dunque, con la sua conversione ha cambiato “padrone”: prima il peccato, ora Dio. Non siamo più liberi nei confronti della giustizia che siamo chiamati, invece, a compiere, ma siamo servi. Ora possiamo davvero praticare la giustizia perché non siamo più soggiogati dal peccato a motivo del perdono e della grazia di Dio. «Sì, ora possiamo».

Essere al servizio di Dio significa vivere nella speranza, avere un senso che rende la vita degna di essere vissuta. Il frutto del vostro servizio è ciò che vi permette di guardare al di là di se stessi e dei limiti umani, il servizio permette di guardare avanti con fiducia, di pensare che esiste un futuro di speranza perché è Dio che lo compie in noi.

Essere al servizio del peccato, invece, significa vivere senza speranza, perché chi confida in sé non può vedere oltre se stesso, e vivere senza speranza è come essere già morti.  Per questo Paolo può affermare che il frutto del peccato è la morte, cioè, una vita-non vita, un non futuro, un vivere senza senso, una vita insignificante, vuota e depressa. Quello che attende non è un futuro di luce e di speranza, ma una notte che prelude alla morte.

«Il salario del peccato è la morte»: l’apostolo usa delle immagini militari per definire il frutto del peccato, usa il termine “salario”, per dire che il peccato “paga” con la moneta della morte, ma Paolo evita di chiamare «salario» la vita eterna perché sa che essa è un dono gratuito di Dio e non la riceviamo come ricompensa del nostro servizio, ma, appunto, come dono.

È un dono che a Dio è costato caro, è costato la morte di suo figlio sulla croce; ma a partire da quella croce, da quelle braccia aperte e quelle mani bucate dai chiodi tu puoi essere accolto e partecipare a una dimensione che solo Dio può permettere: la dimensione del dono, la dimensione della gratuità, la dimensione dell’amore. Questa possibilità nuova è un dono di Dio ed è una vocazione a cui sei chiamato/a fratello, sorella, siamo tutti chiamati ad offrirci come dono gratuitamente perché l’amore di Dio per ciascuno di Dio ci permette di amare.

Questa è la nostra vocazione, questa è la nostra responsabilità. Il Dio di Gesù Cristo che muore per noi, è il Dio che si rivela a ciascuno di noi come il Dio d’amore, il Dio che sovrabbonda d’amore, che non può che amare, perdonare e offrire la sua grazia. Egli lo fa attraverso il nostro servizio.

«Il dono di Dio è la vita eterna». La vita eterna non è un salario, non è una ricompensa, ma solo un dono che riceviamo quando abbandoniamo la nostra logica umana del tornaconto ed entriamo nella logica di Dio che dona senza chiedere nulla in cambio. Questa logica ci permette di porci al servizio di Dio con tutte le nostre membra, cioè non intellettualmente, non spiritualmente, ma concretamente: i doni di Dio sono veri, concreti, non sono miraggi, illusioni, abbagli e neppure sogni.

Il dono di Dio è la vita eterna perché Dio ci fa partecipare alla sua vita al suo progetto di fraternità, di solidarietà, di condivisione e comunione. Non è una realtà da sognare soltanto, è una realtà che diventa vera ogni volta che ci poniamo al servizio   del Signore e della sua giustizia a favore degli ultimi, dei disagiati, dei poveri e di chi non ha forze né vigore. Il nostro impegno per loro sarà ossigeno, acqua, cibo, vita! Amen!

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Pastore Giuseppe Ficara

Consacrato nel 1992, ha svolto il suo ministero nelle chiese di Riesi, Caltanissetta, Agrigento, Trapani e Marsala, Palermo.
Pastore a Luserna San Giovanni da Agosto 2013.

 

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