Culto domenicale:
ore 10,00 Tempio dei Bellonatti

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Domenica, 23 Novembre 2014 15:56

Sermone di domenica 23 novembre 2014 (Efesini 5,22-33)

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Testo della predicazione: Efesini 5, 22-33

«Mogli, siate sottomesse ai vostri mariti, come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo della chiesa, lui, che è il Salvatore del corpo. Ora come la chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le mogli devono essere sottomesse ai loro mariti in ogni cosa. Mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la chiesa e ha dato se stesso per lei, per santificarla dopo averla purificata lavandola con l'acqua della parola, per farla comparire davanti a sé, gloriosa, senza macchia, senza ruga o altri simili difetti, ma santa e irreprensibile. Allo stesso modo anche i mariti devono amare le loro mogli, come la loro propria persona. Chi ama sua moglie ama se stesso. Infatti nessuno odia la propria persona, anzi la nutre e la cura teneramente, come anche Cristo fa per la chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Perciò l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diverranno una carne sola. Questo mistero è grande; dico questo riguardo a Cristo e alla chiesa. Ma d'altronde, anche fra di voi, ciascuno individualmente ami sua moglie, come ama se stesso; e altresì la moglie rispetti il marito.»

Sermone

Care sorelle e cari fratelli,

questa domenica è quella più vicina alla giornata di mobilitazione mondiale contro la violenza sulle donne. Ascolteremo perciò l’evangelo di Gesù Cristo che ci interpella in ogni situazione della vita, avendo in particolare nella mente e nel cuore le relazioni tra uomini e donne quando la difficoltà diventa conflitto e violenza.

Essere credenti in Gesù Cristo non appartiene solo ad una parte della nostra vita e della nostra persona: quella che va in chiesa, che si impegna nella chiesa, quella che prega o legge la Bibbia; una parte per così dire spirituale, mentre la materialità dei nostri corpi, le nostre emozioni, pensieri ed azioni nella vita di tutti i giorni seguirebbero la loro logica. Dio salva tutta la tua vita e il servizio a cui ci chiama è per la vita quotidiana. Anche la nostra vita privata è il terreno del vivere la fede: proprio quella vita che non vede nessuno, che si vive nel segreto delle nostre case, dietro le porte chiuse, dietro finestre protette da tende. L’autore della lettera agli Efesini dice una cosa abbastanza normale per il suo tempo, ma non così ovvia per il nostro tempo. La fede non si ferma alla soglia della casa privata. La fede che si mostra nel riunirsi della comunità in sottomissione reciproca, in buone parole di incoraggiamento, mossi dallo Spirito Santo (Efesini 5,18-21), continua il suo agire oltre le soglie delle case, arriva fino alla vita privata.  La vita privata è il terreno di relazioni quotidiane dove tra le mura domestiche si relazionano un io e un tu, un uomo e una donna, in un  legame particolare spesso invisibile agli occhi degli altri. Oggi sappiamo che dietro le porte chiuse si celano la maggior parte delle violenze sulle donne, le case che a volte progettiamo per proteggere la vita di chi vi abita da eventuali violenze esterne, è il luogo segreto di violenze interne.

Qui tocchiamo un tasto dolente e semplicemente, in maniera umile siamo chiamati a riconoscere il nostro peccato di abbandono a se stessa della sfera privata della nostra vita. Diciamo tutto il nostro pentimento per aver lasciato sole le donne che con vergogna e dolore, in silenzio hanno subito nei loro corpi la violenza domestica. Ci pentiamo di aver giudicato secondo l’apparenza e di aver involontariamente incoraggiato le vittime a rimanere vittime. Ci pentiamo di non aver creduto alle sofferenti, di aver distolto lo sguardo. Riconosciamo di non aver offerto nella chiesa un luogo di sincerità, fiducia e sostegno.

L’autore della lettera agli Efesini aveva un’idea che oggi giudichiamo molto tradizionale dei rapporti tra uomini e donne. Secondo lui esiste nel privato delle famiglie un ordine gerarchico preciso: c’è un capo, l’uomo chiamato a governare la sua casa. All’epoca la casa da governare comprendeva le relazioni con la moglie, con i figli e i servi. Esistevano molti manuali per gli uomini, il cui intento era di rendere credibile il loro ruolo in pubblico. Un uomo che non sapeva governare la sua casa, non era adatto ad un ruolo di responsabilità pubblica.

Per i cristiani, questo tipo di manuali non vengono annullati, ma l’autore della lettera agli Efesini ne scrive uno brevissimo certo, ma per i membri della chiesa in modo particolare. Non è in discussione l’ordine sociale; l’uomo resta il capo. Tuttavia in questo ordine patriarcale, il compito dell’uomo come capo della sua casa viene mitigato e sottoposto al vaglio dell’amore di sé e del prossimo. Il testo fa questo introducendo un paragone ardito: come Cristo è capo della chiesa, così il marito lo è della donna. Il paragone è zoppicante perché sembra identificare il marito e il maschile con una realtà divina (Cristo) e la moglie con la realtà umana della chiesa, mentre tradizionalmente nell’ebraismo biblico, gli esseri umani maschi e femmine, erano paragonati ad una donna (più o meno fedele) in relazione con Dio cui si paragonava un fidanzato o un marito. Pur essendo un paragone un po’ maldestro, la misura della dedizione  di Cristo nei confronti della Chiesa introduce nel testo un limite al “potere” del marito e un orizzonte.  Il limite è costituito dall’amore, dalla sollecitudine, dal rispetto. L’orizzonte del discorso è l’amore di sé e l’amore del prossimo.

Ora è proprio su questa parola “amore” che dobbiamo intenderci. L’amore nella Bibbia è il nome di Dio e non può essere in alcun modo associato alla violenza. Denunciamo perciò come false e fuorvianti le affermazioni che associano la violenza sulle donne  ad un eccesso d’amore. “L’amavo troppo, l’amavo da morire” abbiamo sentito dire da chi segregava la propria donna, la perseguitava di telefonate e messaggi e poi la aveva uccisa. Quel falso amore invocato a scusa è altro: possesso, privazione della libertà, prevaricazione.

 Per Efesini, l’amore cui è chiamato l’uomo verso la donna, è della stessa qualità dell’amore del prossimo. Un amore che comprende anche l’amore per sé. “Ama il tuo prossimo come te stesso”. Ne consegue che chi non ama l’altra, non ama neanche se stesso, chi non rispetta l’altra, non ha rispetto neppure per se stesso. La violenza contro le donne non è solo una manifestazione di odio per una parte dell’umanità, ma anche verso se stesso da parte di colui che commette violenza. E’ il segno potremmo dire, di una maschilità che non si ama.

La lotta contro la violenza sulle donne ha così due aspetti: è difesa della vittima, messa in campo di iniziative perché le donne non siano solo tutelate, protette, ma possano vivere pienamente e senza paura il mondo delle relazioni con gli uomini.

E’ anche lavoro di liberazione degli uomini dall’odio verso se stessi, all’amore di sé che può diventare solo allora, misura dell’amore per l’altra. Ci dobbiamo cioè allontanare decisamente dal cerchio del vittimismo che alla fine giustifica  le violenze e le aggressività degli uomini sulle donne con le difficoltà degli uomini nel nostro tempo: insicurezza del proprio ruolo, perdita del lavoro e quant’altro. Come proponeva l’anno scorso il coordinamento donne della Val Pellice, indicando un numero verde per le donne vittime di violenza ed anche un numero telefonico per uomini alle prese con ira e frustrazioni.

Spezzare il cerchio del vittimismo è la promessa per relazioni liberate dalla violenza e dall'aggressività e per noi cristiani e cristiane è una parte considerevole in questo nostro tempo, della realizzazione dell’amore del prossimo.

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Erika Tomassone

Consacrata nel 1984, è pastora a Rorà e a Luserna San Giovanni dal 2011.

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