Culto domenicale:
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Domenica, 23 Settembre 2018 15:30

Sermone di domenica 23 settembre 2018 (Isaia 49,1-6)

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Testo della predicazione: Isaia 49,1-6

Isole, ascoltatemi! Popoli lontani, state attenti! Il Signore mi ha chiamato fin dal seno materno, ha pronunciato il mio nome fin dal grembo di mia madre. Egli ha reso la mia bocca come una spada tagliente, mi ha nascosto nell'ombra della sua mano; ha fatto di me una freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra, e mi ha detto: «Tu sei il mio servo, Israele, per mezzo di te io manifesterò la mia gloria». Ma io dicevo: «Invano ho faticato; inutilmente e per nulla ho consumato la mia forza; ma certo, il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa è presso il mio Dio». Ora parla il Signore che mi ha formato fin dal grembo materno per essere suo servo, per ricondurgli Giacobbe, per raccogliere intorno a lui Israele; io sono onorato agli occhi del Signore, il mio Dio è la mia forza. Egli dice: «È troppo poco che tu sia mio servo per rialzare le tribù di Giacobbe e per ricondurre gli scampati d'Israele; voglio fare di te la luce delle nazioni, lo strumento della mia salvezza fino alle estremità della terra».

Sermone

Care sorelle e fratelli, in questo “Canto del servo” del profeta Isaia, il Signore dichiara di aver scelto un suo servo per affidargli una missione da compiere.

Israele è ancora in esilio forzato in Babilonia (l’attuale Iraq), e il profeta, agli albori della sua predicazione, proclama che il tempo della schiavitù è compiuto, che la gloria del Signore si rivelerà proprio nella liberazione di Israele, come fu un tempo liberato dalla schiavitù d’Egitto. Per questo prorompe in un canto che dice: «Consolate, consolate il mio popolo…»; Dio invia, quindi, un araldo per annunziare a Israele “la buona notizia” che il Signore viene, ancora una volta, per liberare.

L’intento del profeta è quello di ridestare negli esiliati la speranza di tornare a casa, nella terra promessa. Una speranza che gli ebrei non avevano più, anzi dicevano: «la nostra speranza è tramontata, siamo perduti per sempre» (Ezechiele 37).

Ma qui, il profeta Isaia prorompe in un canto di gioia tanto grande da permettergli di rivolgerlo perfino alle Isole lontane e ai popoli che vivono ai confini della terra a cui, magari, non importava nulla, ma il senso è che i gesti di liberazione vanno condivisi, raccontati, annunziati.

Così succede quando ci si sposa o quando ci nasce un figlio o quando ci accade qualcosa di molto importante: lo raccontiamo a tutti, anche a quelli che non hanno alcun interesse. In noi nasce la certezza che ciò che è successo in piccolo nella nostra storia, nella nostra vita, coinvolga tutti gli altri, il mondo intero, tutta la storia attorno a noi.

Così, Dio dà al profeta una parola da proclamare, e dice: «ha reso la mia bocca come una spada affilata»; è una metafora da capire: significa che il servo ha ricevuto il dono di parlare in modo che chi ascolta sia convinto dalla Parola di Dio. Nel nuovo Testamento, questa spada affilata è invece rappresentata dallo Spirito Santo che parla e interviene per noi, attraverso di noi e convince gli ascoltatori del fatto che la Parola di Dio ci annuncia la bontà di Dio e il suo amore per noi, che ci perdona e ci libera.

Però, dopo avergli dato questo dono, Dio ha «nascosto nell’ombra della sua mano» il profeta, ha fatto di lui «una freccia appuntita» e lo ha «riposto nella sua faretra». Tutto ciò indica la capacità di andare lontano, come una freccia, di raggiungere destinatari lontani prima irraggiungibili e lo custodisce come qualcosa di prezioso nelle sue mani forti e sicure, lo protegge riponendolo, come si fa con la freccia, nella faretra.  

E riporlo dentro la faretra, nella custodia delle frecce, indica un’attesa: dopo averlo preparato adeguatamente, Dio ha posto il profeta in attesa. Questa attesa ha reso il profeta impaziente, ansioso, tanto da pensare: «invano ho faticato», come dire: “tutta fatica sprecata”.

Tutto questo, a volte, accade anche a noi quando facciamo un’enorme fatica senza ottenere alcun risultato evidente nel lavoro, nella famiglia, negli amici, tra i nostri parenti: alle volte si tratta di sforzi per mediare, per riconciliare le persone, o semplicemente per vivere, per trovare un lavoro, esigere rispetto della nostra dignità, delle nostre capacità, nella ricerca di condizioni più consone alla nostra sensibilità e alla nostra vita.

Alle volte anche nella comunità dei credenti, accade che, dopo la fatica di tanti fratelli e sorelle che cercano di portare la Parola di Dio vicino alle persone, fanno poi i conti con la scarsità dei risultati; ci si rende anche conto della scarsità di mezzi a disposizione, di strumenti, di disponibilità anche finanziarie; ecco, spesso l’esiguità dei risultati ci porta a considerare fallimentare la nostra opera, e questo ci porta a scoraggiarci e all’idea che non valga la pena ritentare, provare ancora di nuovo.

Altre volte valutiamo i progetti che facciamo un inutile dispendio di energie, davanti a una realtà sociale complessa che ci fa sentire impotenti.

Ma non deve essere così, no! Quelle iniziative che ai nostri occhi possono sembrare mal riuscite, possono invece ricevere diverso apprezzamento da Dio. È vero, non sempre riusciamo a vedere i risultati della nostra fatica e preferiamo restare chiusi dentro la nostra faretra piuttosto che essere lanciati contro un obiettivo che non raggiungiamo.

Anche Isaia ha avvertito la stessa sensazione quando dice: «Io dicevo: inutilmente e per nulla ho consumato la mia forza». Ma poi riesce a cantare, ad andare oltre il senso del fallimento, perché ha fiducia, e pensa che la sua fatica sia nelle mani di Dio, perciò può dire: «Mi ha nascosto nel palmo della sua mano». Forse noi ci sentiamo troppo miseri, troppo mancanti per pensare che Dio ci custodisca nella sua mano, ma non è così perché Dio non ci tratta secondo le nostre opere o «secondo i nostri peccati» (Salmo 103,10).  

Dio considera tutte le creature come suoi servi e serve, nel senso che ognuno di noi, nel nostro ambito, nel nostro piccolo, nel nostro mondo, ha uno scopo, ha un senso, un obiettivo da perseguire, e ci è chiesto di farlo con tenacia, senza subire la vita, ma viverla, affrontandola, come leoni, malgrado le difficoltà e le prove cui andiamo incontro.

    Il Signore affida a noi il compito di essere una speranza per tutti, soprattutto per chi spera più, ce l’affida anche se ci riteniamo incapaci e inesperti. Ci invita ad annunciare la speranza a coloro che vivono ai confini del mondo, a coloro che sono esclusi, respinti, abbandonati alla perdizione, alla povertà, alla denutrizione, alla fame, alla guerra, all’impossibilità di avere accesso alle medicine essenziali, all’acqua potabile; a coloro che subiscono la violenza, l’odio, lo sfruttamento.

    È una marea di persone vicine e lontane da noi, ma alle quali possiamo offrire una mano tesa, la nostra ospitalità, accoglienza, cordialità, una speranza.

Al riguardo, il mondo protestante, a partire dai riformatori del ‘500, ha considerato la nostra professione e il lavoro che svolgiamo, come una vocazione che Dio stesso ci affida: affinché possiamo rendere il nostro servizio verso il nostro prossimo nel migliore dei modi, con sempre maggior professionalità e capacità. Fu così che gli Ugonotti di Francia, protestanti, per lo più artigiani, perseguitati e scacciati dalla loro patria, trovarono rifugio nella protestante Svizzera divenendo dei fini artigiani del loro lavoro: nacquero così i più precisi al mondo orologi svizzeri o quelli a cucù.

Non è banale tutto ciò, perché la vocazione di Dio ci permette di avere la consapevolezza che esistiamo per uno scopo, che abbiamo un senso, che ci siamo per essere utili agli altri e per rendere un servizio che rende la nostra vita degna e felice. È questo che rende felici: il sentirci utili, non i soldi!

Così, anche noi siamo chiamati ad avere la consapevolezza che davvero il nostro esistere e la nostra fatica sono custodite nelle mani di Dio. Questo significa che non siamo lasciati soli nelle difficoltà e nelle prove che la nostra vocazione, la nostra professione o volontariato comportano.

Essere custoditi nella mano di Dio vuol dire che possiamo impegnarci con fiducia, possiamo affaticarci, enormemente, anche senza vedere dei risultati immediati, possiamo non arrenderci, non fermarci, ma proseguire, andare avanti perché, anche se riposti nella faretra, saremo sempre, per il Signore, delle frecce appuntite che possono andare lontano. Amen!

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Pastore Giuseppe Ficara

Consacrato nel 1992, ha svolto il suo ministero nelle chiese di Riesi, Caltanissetta, Agrigento, Trapani e Marsala, Palermo.
Pastore a Luserna San Giovanni da Agosto 2013.

 

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