Culto domenicale:
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Domenica, 09 Febbraio 2020 19:32

Sermone di domenica 9 febbraio 2020 (Matteo 20,1-16)

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Testo della predicazione: Matteo 20,1-16

Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa, che uscì presto di mattina ad assumere dei lavoratori per la sua vigna. Giunto a un accordo con i lavoratori per un denaro al giorno, li mandò alla sua vigna. Uscito poi verso la terza ora, vide altri che stavano in piazza disoccupati e disse loro: “Andate anche voi alla vigna e vi darò ciò che è giusto”. Ed essi andarono. Poi, uscito ancora verso la sesta e la nona ora, fece lo stesso. Uscito verso l’undicesima, ne trovò altri che stavano là e disse loro: “Perché siete state qui tutto il giorno senza lavorare?” Essi gli dissero: “Perché nessuno ci ha assunti”. Rispose loro: “Andate anche voi alla vigna”. Fattosi sera, il padrone della vigna disse al suo custode: “Chiama i lavoratori e da’ loro la paga, cominciando dagli ultimi fino ai primi”.  Allora vennero quelli dell’undicesima ora e ricevettero un denaro ciascuno. Arrivati i primi, pensavano che avrebbero ricevuto di più di più; ma anche loro presero un denaro ciascuno. Perciò, nel riceverlo, parlarono contro il padrone di casa dicendo: “Questi che sono arrivati per ultimi hanno lavorato un’ora sola e tu li hai equiparati a noi che ci siamo fatti carico della fatica della giornata e del sole cocente”. Ma egli, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, non ti faccio alcun torto; non ti sei accordato con me per un denaro? Prendi il tuo e va’. Voglio, però, dare a quello che è arrivato per ultimo quanto a te. Non mi è permesso fare ciò che voglio con ciò che è mio? O mi guardi tu di cattivo occhio perché sono buono?” Perciò gli ultimi saranno primi e i primi ultimi.

Sermone

Care sorelle e cari fratelli, la parabola dei lavoratori che vengono assunti dal padrone della vigna in diverse ore della giornata percependo tutti lo stesso salario, ha sempre suscitato un senso di disagio perché appare evidente che il padrone non tratti gli operai con equità e non si tratta certo di una le­zione sulla giustizia sociale. Qui, a parità di lavoro, c’è chi è pagato di più e chi è pagato di meno. Oggi noi siamo tutti contro quegli stipendi delle donne che, a parità di ore e di rendimento, sono pagate meno rispetto agli uomini.

Ma allora qual è il messaggio di questa parabola? Esaminiamola insieme.

Il padrone di una vigna al tempo della vendemmia, all’alba, verso le sei del mattino, si reca in piazza per ingaggiare degli operai a giornata. Si accorda con loro e pattuisce la paga: un denaro. Quegli uomini avrebbero lavorato fino al tramonto, per circa 12 ore. Ma verso le nove, all’ora del mercato, il padrone torna in paese e, in piazza, vede altri disoc­cupati che manda a lavorare alla sua vigna: anche questi lavoreranno fino al tramonto per circa nove ore. Ma con questi non pattuisce la paga di un denaro, ma dice loro: «Vi darò ciò che è giusto». Torna in piazza a mezzogiorno, poi alle tre e alle cinque, un’ora prima del tramonto, trova ancora dei disoccupati che nessuno ha preso a giornata, e li manda a vendem­miare nella sua vigna.

Al tramonto la giornata di lavoro termina, c’è chi ha lavorato per dodici ore, sotto il peso del caldo e del lungo lavoro, chi per nove ore, chi sei, chi tre e chi una sola ora. Ma tutti ricevono la stessa identica paga: un denaro. Il fattore inizia a pagare prima gli ultimi perché questo dettaglio servirà a provocare quella tensione utile allo svolgimento della parabola e al messaggio di Gesù.

Protestano i primi: «Questi ultimi hanno lavorato un’ora sola e tu li hai equiparati a noi che abbiamo sopportato il peso della giornata e sofferto il caldo del sole cocente» (v. 12). Certo, anche noi avremmo protestato, perché quella paga degli ultimi, non è giusta, è un regalo. I lavoratori della prima ora si aspettavano, oltre alla paga, un regalo, un compenso maggiore perché lo meritavano rispetto agli ultimi. Così, reagiscono risentiti: il padrone non ha tenuto conto dei loro meriti ben superiori degli altri. Un tema non nuovo nel giudaismo rabbinico dell’epoca che conosceva una parabola rabbinica contenuta nel Talmud di Gerusalemme e che vi racconto.

«Un re assoldò un gran numero di operai. Due ore dopo l’inizio del lavoro, venne a visitare gli operai. Vide che uno degli operai si distingueva sopra tutti gli altri per la sua diligenza e abilità. Lo prese per mano e passeggiò con lui qua e là fino a sera. Quando i lavoratori vennero a ricevere il loro salario, quegli ottenne la stessa paga degli altri. Allora si misero a mormorare e a dire: noi abbiamo lavorato tutto il giorno e costui soltanto due ore; tuttavia, tu gli hai dato il salario intero! E il re di rimando: Io non vi faccio ingiustizia, perché quest’operaio ha fatto in due ore lo stesso lavoro che voi avete compiuto in un giorno»

Questa parabola rabbinica fa leva sui meriti degli operai e spiega che Dio agisce in base a un criterio meritocratico, come gli amici di Giobbe che gli consigliano di pentirsi perché Dio lo stava punendo a causa dei suoi peccati. Gesù, invece, introduce una visione diversa di Dio: nella prima parabola emerge il merito, nella seconda la grazia; nella prima la legge, nella seconda l’evangelo. E Gesù lo fa scuotendo la nostra coscienza, e suscitando dissenso per invitarci a riflettere su chi è veramente Dio per ciascuno di noi.

Capiamo bene e condividiamo la delusione e la frustrazione dei primi lavoratori. E dal padrone ci si attenderebbe una buona parola, un ripen­samento sul salario. Invece no! Il padrone replica in modo aspro e duro: «Amico, io non ti ho imbrogliato, non ti sei accordato con me per un denaro? Ecco il tuo denaro, vattene e sta zitto». È vero, il contadino non è stato defraudato dal punto di vista monetario, ma moralmente sì. E allora, il padrone giustifica il suo comportamento dicendo: «Non posso fare quello che voglio con i miei soldi? Io voglio dare a que­sto, che è venuto per ultimo, quello che ho dato a te. O vedi tu di cattivo occhio che io sia buono. Ecco, qui è affermato che il concetto di giustizia non è più legato ai meriti, ma alla bontà, quella di Dio, innanzitutto.

Il padrone, non toglie nulla a nessuno, e nessuno deve sentirsi minacciato dalla bontà del padrone della vigna. Non deve sembrarci lontano dalla nostra sensibilità questo, perché anche oggi tanta gente oggi si sente minacciata perché si distribuiscono troppi diritti agli altri: alle donne, ai bambini, ai disabili, ai lavoratori, agli omosessuali, alle coppie non sposate, agli stranieri migranti… sentono sminuito il loro status, che vivono come un’ingiustizia, sebbene nessuno abbia tolto loro proprio nulla. L’ingiustizia, invece, consiste nella prevaricazione contro qualcuno, nel danneggiare qualcuno. Un comportamento generoso a favore di qualcuno, che non danneggia altri, non è ingiustizia. Suscita, però, invidia di chi non apprezza la generosità verso qualcuno diverso da sé!

Gesù, in questa parabola, annuncia un messaggio d’amore, di perdono e di grazia, Gesù opera un capovolgimento, un rovesciamento delle situazioni: sconfessa la giustizia retributiva, ottenuta a motivo dei propri meriti e confessa un Dio dall’amore sconfinato e generoso la cui giustizia va al di là dei meriti e al di là di quella umana.

Ma chi sono i primi che vanno al lavoro e chi sono gli ultimi?

La vigna, nell’Antico Testamento, rappresenta Israele (Is. 5,1-7; Ger. 2,21; Ez. 19,10-14) e il suo rapporto con Dio. Il padrone della vigna rivolge a tutti il suo invito, in momenti diversi della giornata; i primi a essere convocati sono i giudei, quelli delle ore successive sono coloro che sembravano dimenticati: i peccatori, i pubblicani, le prostitute, i pagani, gli stranieri, noi!

La parabola, innanzitutto è diretta ai giudei e al loro orgoglio farisaico, essi rivendicavano il privilegio di essere il popolo eletto, e non potevano sopportare che gli ignoranti, i pec­catori e addirittura i pagani fossero eguagliati a loro e che Gesù annunciasse la salvezza non solo al popolo eletto, ma anche a chi non ne era degno. Ma ecco il capovolgimento, la novità annunciata da Gesù considerata cosa inaudita: tutti possono partecipare alla salvezza, perché vi è parità tra giudei e pagani, Dio li considera tutti eguali.

Pensate che le scuole rabbiniche ripetevano che «Dio ha scelto Israele perché vedeva che era il solo capace di ricevere le legge» perciò ogni israe­lita è tanto importante quanto tutti i popoli messi insieme.

Il considerare uguali i primi e gli ultimi, i giudei e i pagani, feriva implacabilmente l’orgoglio degli israeliti farisei: «Li hai considerati come noi» era il rimprovero rivolto al padrone; non viene tanto reclamato un salario maggiore (anche se dentro di sé c’è la speranza di riceverlo), ma sotto accusa è l’eguale trattamento nei confronti dei primi e degli ultimi.

Questi giudei dicevano di meritare di più perché avevano speso tutta la vita nell’osservanza scrupolosa della legge, i loro meriti non potevano essere paragonati a quelli di chi arrivava all’ultima ora. Anche nella chiesa degli inizi l’ingresso dei pagani, diversi dagli ebrei, aveva creato non pochi problemi e forti tensioni di cui parla l’apostolo Paolo nelle sue lettere. Da qui, il forte impulso dell’evangelista Matteo a sottolineare il messaggio di Gesù che includeva tutti all’interno della salvezza di Dio a partire dal suo amore e dalla sua bontà.

Infatti, la grazia di Dio non tiene conto dei meriti di nessuno perché è un dono, gratuito. L’antico patto basato sulla legge, Gesù lo ha sostituito con un nuovo patto, fondato solo sulla grazia, una grazia aperta a tutti, indistintamente. ¿E chi ha più bisogno della grazia se non i deboli, gli afflitti, gli ultimi, gli emarginati, i discriminati, i malati, gli stranieri, perché più bisognosi attenzioni e di cure?

Chi rifiuta la forza dell’amore di Dio, il dono della sua grazia, ma pretende ricompense da Dio perché pensa di meritarle, non ha capito Dio, la lettera di Giovanni dice «non ha conosciuto Dio», e quello passa da primo a ultimo, mentre la gra­zia di Dio porta gli ultimi a sopravanzare i primi. Come nella parabo­la del Figliol prodigo, il finale rimane aperto: il figlio maggiore avrà capito l’immenso amore di Dio o continuerà a lamentarsi per l’in­giusto trattamento subìto? Lo capiranno i primi lavoratori ingaggiati?

L’amore e la misericordia di Dio non rientrano negli schemi della giustizia e dell’equità umana: qui è spez­zato il collegamento tra merito e giustizia. Chi si sente defraudato non ha capito che il perdono e l’amore di Dio non sono meritati, ma sono un dono, una grazia.

È questo l’evangelo che Gesù è venuto a portare e che oggi è attuale più che mai: la grazia di Dio ci chiama a offrire la nostra disponibilità e il nostro impegno, non certo per ricevere una qualche ricompensa che, in realtà, ci è già stata donata.

Dio accoglie per grazia, non per meriti: questo significa che egli abbatte la presunzione umana, l’orgoglio e l’ambizione dell’autosufficienza. La grazia di Dio non è un arbitrio di Dio, ma il suo amore, un amore uguale verso i primi della classe e verso gli ultimi.

L’amore di Dio non aumenta man mano che passa il tempo perché ci accattiviamo il suo favore. L’amore di Dio non cambia, Dio ama con la stessa intensità tutti, sempre. In Dio vi è abbondanza di grazia e di amore, di perdono e di speranza. La misericordia e la grazia di Dio non hanno misura, non sono donate col contagocce, ma sono sempre piene e totali.

Questa parabola, dunque, ci insegna che siamo tutti chiamati a lavorare nella vigna del Signore, al servizio del Signore e del prossimo, nella chiesa e nella società per portare là i cambiamenti necessari per una giustizia fondata sulla solidarietà, sull’altruismo, sulla possibilità che tutti abbiano un’occupazione dignitosa, sulla condivisione delle risorse, sul rispetto degli altri considerati ultimi perché diversi e senza diritti, sul rispetto della creazione e dell’ambiente. E proprio su questo tema, i nostri ragazzi del catechismo stanno lavorando per proporci un culto serale a fine mese, nella speranza che si possa passare dalle parole ai fatti.

Ecco, la parabola ci insegna a passare ai fatti, ad essere attivisti, a impegnarci cioè attivamente per quel tipo di giustizia di cui parlava Gesù. La parabola ci insegna che non dobbiamo restare accovacciati sulla piazza, ma andare a lavorare, ciascuno con i propri doni, riconoscenti, nel grande campo della vita e del mondo. Questo servizio potremo renderlo solo grazie alla grazia e alla misericordia sovrabbondanti che Dio ha per ciascuno di noi. Amen!

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Pastore Giuseppe Ficara

Consacrato nel 1992, ha svolto il suo ministero nelle chiese di Riesi, Caltanissetta, Agrigento, Trapani e Marsala, Palermo.
Pastore a Luserna San Giovanni da Agosto 2013.

 

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