Culto domenicale:
ore 10,00 Tempio dei Bellonatti
Numero di telefono del presbiterio: 0121.30.28.50
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Archivio dei sermoni domenicali
Testo della predicazione: Luca 12,15-21
Gesù disse loro: «Guardatevi e tenetevi lontano da ogni forma di avarizia; perché per chi è nell’abbondanza la sua vita consiste nei suoi beni». Raccontò loro una parabola con queste parole: «La terra di un uomo ricco diede un buon raccolto; egli ragionava tra sé e sé dicendo: “Che farò? Perché non ho un posto dove immagazzinare il mio raccolto”. E disse: “Farò così: demolirò i miei granai e ne costruirò di più grandi, e immagazzinerò lì tutto il mio grano e tutti i miei beni, e dirò alla mia anima: ‘Anima, hai molti beni da parte per molti anni. Riposati, mangia, bevi, goditela”. Ma Dio gli disse: “Sciocco, proprio stanotte la tua anima ti sarà chiesta indietro. A chi andranno le cose che hai preparato?” Così va per chi accumula per sé e non è ricco in Dio».
Sermone
Care sorelle, cari fratelli, la parabola dell’uomo ricco trae spunto da una domanda che un tale rivolge a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello di dividere con me l’eredità». Evidentemente, il fratello di quel tale voleva tenere tutto per sé; chissà, forse per volontà del padre, o forse perché era il primogenito cui spettava tutto, o forse per avarizia. Oggi, qualunque pastore che fa cura d’anime avrebbe cercato di aiutare l’uomo rimasto escluso dall’eredità, magari parlando al fratello, spiegandogli quanto sia importante dividere equamente l’eredità.
Gesù, invece, è molto duro nei confronti dell’uomo escluso dall’eredità, e lo mette in guardia dall’avarizia. Certo, è un argomento spinoso quello del possedere e Gesù ne parla davanti alla folla raccontando una parabola: «La terra di un uomo ricco diede un buon raccolto…».
Gesù vuole spiegare che quello del possedere può diventare un vero problema se gestito con avidità e avarizia. Esso si insinua in modo subdolo, nascosto, senza consapevolezza, sotto le mentite spoglie di un problema di equità, di giustizia, di correttezza. In realtà, però, il possedere può far perdere il senso di orientamento della nostra esistenza, e perfino il senso vero della vita.
Gesù parla, dunque, di avidità e di ricchezze, di possesso e di denaro, ma anche di potere che si acquisisce con la ricchezza. È vero, infatti, il detto: «Chi paga, comanda».
Bisogna, tuttavia, notare che Gesù non dà nessun giudizio negativo al fatto che questo agricoltore sia ricco o che i suoi campi abbiamo dato un raccolto abbondante. Gesù pone l’accento sull’autoreferenzialità dell’uomo.
Testo della predicazione: Giacomo 2,1-13
«Fratelli miei, la vostra fede nel nostro Signore Gesù Cristo, il Signore della gloria, sia immune da favoritismi. Infatti, se nella vostra adunanza entra un uomo con un anello d’oro, vestito splendidamente, e vi entra pure un povero vestito malamente, e voi avete riguardo a quello che veste elegantemente e gli dite: «Tu, siedi qui al posto d’onore»; e al povero dite: «Tu, stattene là in piedi», o «siedi in terra accanto al mio sgabello», non state forse usando un trattamento diverso e giudicando in base a ragionamenti malvagi? Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto quelli che sono poveri secondo il mondo perché siano ricchi in fede ed eredi del regno che ha promesso a quelli che lo amano? Voi invece avete disprezzato il povero! Non sono forse i ricchi quelli che vi opprimono e vi trascinano davanti ai tribunali? Non sono essi quelli che bestemmiano il buon nome che è stato invocato su di voi? Certo, se adempite la legge regale, come dice la Scrittura: «Ama il tuo prossimo come te stesso», fate bene; ma se avete riguardi personali, voi commettete un peccato e siete condannati dalla legge quali trasgressori. Chiunque infatti osserva tutta la legge, ma la trasgredisce in un punto solo, si rende colpevole su tutti i punti. Poiché colui che ha detto: «Non commettere adulterio», ha detto anche: «Non uccidere». Quindi, se tu non commetti adulterio ma uccidi, sei trasgressore della legge. Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo la legge di libertà. Perché il giudizio è senza misericordia contro chi non ha usato misericordia. La misericordia invece trionfa sul giudizio.».
Sermone
Cari fratelli e care sorelle, il brano biblico della lettera di Giacomo alla nostra attenzione, affronta il tema legato ai nostri rapporti con il prossimo, in modo particolare al nostro giudizio verso gli altri.
Sebbene la nostra sensibilità di protestanti è quella di un’etica della responsabilità che ha come conseguenza la libertà di vivere ed operare in base a scelte che facciamo a partire dalla propria coscienza e coerenza con la fede, tuttavia il nostro modo di vivere non è esente dal rapportarci con gli altri avendo di loro un nostro proprio giudizio.
La comunità a cui si rivolge Giacomo, era chiamata a esprimere dei giudizi che però non erano fondati su criteri corretti di eguaglianza e di misericordia. L’autore fa degli esempi di situazioni che denotano un atteggiamento dei credenti, messo da lui in discussione, perché non è rapportato alla fede, ma ancora di più non ha come base la misericordia di Dio per noi che ci chiama a metterla in pratica: «Se durante i vostri incontri entra un uomo con un anello d’oro, vestito splendidamente, e vi entra pure un povero vestito malamente, e voi avete riguardo a quello che veste elegantemente e non al povero, non state forse usando un trattamento diverso?».
Testo della predicazione: Isaia 49,1-6
Isole, ascoltatemi! Popoli lontani, state attenti! Il Signore mi ha chiamato fin dal seno materno, ha pronunciato il mio nome fin dal grembo di mia madre. Egli ha reso la mia bocca come una spada tagliente, mi ha nascosto nell'ombra della sua mano; ha fatto di me una freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra, e mi ha detto: «Tu sei il mio servo, Israele, per mezzo di te io manifesterò la mia gloria». Ma io dicevo: «Invano ho faticato; inutilmente e per nulla ho consumato la mia forza; ma certo, il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa è presso il mio Dio». Ora parla il Signore che mi ha formato fin dal grembo materno per essere suo servo, per ricondurgli Giacobbe, per raccogliere intorno a lui Israele; io sono onorato agli occhi del Signore, il mio Dio è la mia forza. Egli dice: «È troppo poco che tu sia mio servo per rialzare le tribù di Giacobbe e per ricondurre gli scampati d'Israele; voglio fare di te la luce delle nazioni, lo strumento della mia salvezza fino alle estremità della terra».
Sermone
Care sorelle e fratelli, in questo “Canto del servo” del profeta Isaia, il Signore dichiara di aver scelto un suo servo per affidargli una missione da compiere.
Israele è ancora in esilio forzato in Babilonia (l’attuale Iraq), e il profeta, agli albori della sua predicazione, proclama che il tempo della schiavitù è compiuto, che la gloria del Signore si rivelerà proprio nella liberazione di Israele, come fu un tempo liberato dalla schiavitù d’Egitto. Per questo prorompe in un canto che dice: «Consolate, consolate il mio popolo…»; Dio invia, quindi, un araldo per annunziare a Israele “la buona notizia” che il Signore viene, ancora una volta, per liberare.
L’intento del profeta è quello di ridestare negli esiliati la speranza di tornare a casa, nella terra promessa. Una speranza che gli ebrei non avevano più, anzi dicevano: «la nostra speranza è tramontata, siamo perduti per sempre» (Ezechiele 37).
Ma qui, il profeta Isaia prorompe in un canto di gioia tanto grande da permettergli di rivolgerlo perfino alle Isole lontane e ai popoli che vivono ai confini della terra a cui, magari, non importava nulla, ma il senso è che i gesti di liberazione vanno condivisi, raccontati, annunziati.
Così succede quando ci si sposa o quando ci nasce un figlio o quando ci accade qualcosa di molto importante: lo raccontiamo a tutti, anche a quelli che non hanno alcun interesse. In noi nasce la certezza che ciò che è successo in piccolo nella nostra storia, nella nostra vita, coinvolga tutti gli altri, il mondo intero, tutta la storia attorno a noi.
Testo della predicazione: Atti 12,1-11
«A quel tempo, il re Erode iniziò a opprimere alcuni della Chiesa. Fece uccidere di spada Giacomo, il fratello di Giovanni. E visto che ciò era gradito ai Giudei, fece in modo di prendere anche Pietro. Erano i giorni degli Azzimi. Dopo averlo fatto arrestare, lo mise in prigione, e lo affidò alla custodia di quattro squadre di quattro soldati ciascuna; era sua intenzione condurlo in giudizio davanti al popolo dopo la Pasqua. Così, mentre Pietro era sorvegliato in carcere, la Chiesa pregava intensamente Dio per lui. Nella notte in cui Erode stava per portarlo davanti al popolo, Pietro dormiva, piantonato da due soldati, legato con due catene; delle guardie davanti alla porta sorvegliavano il carcere. Ed ecco, si presentò un angelo del Signore e una luce brillò nella cella. E, toccato il fianco di Pietro, lo svegliò: «Àlzati, presto!», e le catene gli caddero dalle mani. Poi, l’angelo gli disse: «Mettiti la cintura e legati i sandali». Egli eseguì e l’angelo aggiunse: «Mettiti addosso il tuo mantello e seguimi». Allora Pietro, uscito, lo seguiva, per quanto non sapeva se fosse vero quel che gli accadeva per mezzo dell’angelo. Pensava, infatti, di avere una visione. Superate, quindi, la prima e la seconda guardia, giunsero alla porta di ferro, quella che conduce in città, e questa si aprì da sola davanti a loro. Usciti, proseguirono su una strada e, subito, l’angelo scomparve da lui. Poi, quando Pietro rientrò in sé, disse: «Ora so per certo che il Signore ha inviato il suo angelo e mi ha liberato dalla mano di Erode e da tutto ciò che si aspettava il popolo dei Giudei».
Sermone
Care sorelle e cari fratelli, davanti a noi si apre una delle scene più suggestive del Nuovo Testamento. Andiamo quindi a vedere cosa stava succedendo all’epoca dei fatti, siamo verso l'anno 45 dopo Cristo. La chiesa ha cominciato a formarsi, l'apostolo Paolo si è già convertito ed è ancora in ritiro spirituale, solo tra 5 anni comincerà i suoi viaggi missionari di evangelizzazione. Stefano, il primo martire è morto da una decina d'anni, ma la chiesa di Gerusalemme è ancora viva e cresce tra grandi difficoltà. I giudei però cominciano a sopportare sempre meno i cristiani: i Sadducei e i Farisei sono i loro peggiori nemici.
Regna sul trono Giulio Agrippa I, nipote del re Erode il Grande che era suo nonno, per questo anche lui è chiamato Erode, ma si tratta di Agrippa. Costui fu educato a Roma e divenne molto amico della famiglia imperiale. Così, l'imperatore Claudio diede sotto il suo potere tutti i territori di suo nonno Erode il Grande.
Così Agrippa si trovò in Palestina con pieni poteri, al vertice della sua carriera; ma su di lui incombeva un'ombra, un atroce dubbio: il fatto che Agrippa fosse troppo amico di Cesare e dei romani che, a loro volta, erano oppressori e, quindi, nemici dei giudei. Così il re Agrippa, per accattivarsi il favore dei giudei e far dimenticare i suoi legami con Roma, comincia a perseguire una politica di protezione di tutte le osservanze giudaiche.
I cristiani rimasero così vittime di questa politica, accusati di non seguire completamente le pratiche giudaiche, ed ebbe inizio una manovra repressiva.
Testo della predicazione: Galati 5,22. 23. 25; 6,1-2. 7-10 – 22
Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, gentilezza, generosità, fiducia. 23 Contro queste cose non c’è legge. 25 Se viviamo nello Spirito, con lo Spirito siamo concordi. 6,1 Fratelli, se uno viene sorpreso in qualche trasgressione, voi rialzatelo con spirito di mansuetudine. Vigila su te stesso, perché anche tu non sia messo alla prova. 2 Portate i pesi gli uni degli altri e così adempirete la legge di Cristo. 7 Non vi ingannate! Dio non si fa prendere in giro. Ciò che uno semina, anche raccoglierà, perché chi semina per la propria carne, raccoglierà rovina; chi semina per lo Spirito, dallo Spirito mieterà vita eterna. Non stanchiamoci di fare il bene. L momento opportuno, infatti, se non ci saremo stancati, mieteremo. Ora, dunque, dato che ne abbiamo l’occasione, facciamo del bene a tutti.
Sermone
Cari fratelli e care sorelle, di questo brano mi ha molto colpito la frase: «Portate i pesi gli uni degli altri». Com’è possibile portarli? Se penso a chi nel mondo ha fame o sete, o è perseguitato a motivo delle sue convinzioni religiose o politiche o perché è omosessuale o disabile; mi sono apparse le immagini di chi attraversa i mari, che diventano spesso la loro tomba, per cercare una vita dignitosa, lontano da guerre, conflitti, ingiustizie, precarietà, vessazioni. Ma senza andare così lontano mi sono apparse le immagini delle tante persone, vicine a noi, senza un lavoro, o dei poveri che bussano alla porta della chiesa per chiedere una borsa della spesa. Ho visto le tante persone accanto a me che percorrono una strada di dolore, di sofferenza, di disperazione, di inquietudine.
Ho pensato che è davvero difficile portare questi pesi, i pesi dei tanti fratelli e delle tante sorelle della comunità umana.
Eppure, per l’apostolo Paolo questa è una condizione per essere credenti autentici. Senza paura e senza reticenze afferma: «Portate i pesi gli uni degli altri e così adempirete la legge di Cristo».
Non si tratta di un suo consiglio, ma del modo di mettere in pratica la legge di Cristo.
Ma qual è la legge di Cristo? Per Paolo è la legge dell'amore.
Testo della predicazione: I Tessalonicesi 1,2-10
Noi ringraziamo sempre Dio per voi tutti, ricordandovi nelle nostre preghiere, rammentando l'opera della vostra fede, la fatica dell'amore e la costanza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo davanti a Dio, nostro Padre. Conosciamo, fratelli amati da Dio, la vostra elezione. Infatti, il nostro vangelo non vi è stato annunziato soltanto con parole, ma anche con potenza, con lo Spirito Santo e con piena certezza. Voi siete divenuti imitatori nostri e del Signore, avendo accettato la Parola in mezzo a molte sofferenze, con la gioia dello Spirito Santo, al punto da diventare un esempio per tutti i credenti (…).
Infatti, da voi la Parola del Signore si è sparsa, non soltanto in Macedonia e in Acaia, ma la fama della fede che avete in Dio è giunta in ogni luogo (…). Tutti raccontano (…) del vostro servizio al Dio vivente, nell'attesa del Figlio suo dai cieli e che Egli ha risuscitato dai morti.
Sermone
Cari fratelli e care sorelle, l’apostolo Paolo ringrazia Dio perché i credenti della chiesa di Tessalonica sono fermi nella fede in Cristo. È stato l’apostolo stesso a fondare quella chiesa con la predicazione del Vangelo, un vangelo annunciato con passione e con piena certezza, come dirà egli stesso. Ora, però, l’apostolo è altrove, e non ha modo di visitare i credenti tessalonicesi per consolidarli ulteriormente nella fede, però, avendo inviato Timoteo, un suo compagno nella predicazione, ha ricevuto buone notizie, senz’altro inattese, che lo riempiono di gioia. Così scrive, con grande riconoscenza, una lettera, quella di cui abbiamo ascoltato la parte iniziale.
L’apostolo afferma di pregare, prega per i credenti che sono vittime di persecuzioni, sofferenze e difficoltà di vario genere, prega perché la fede di questi credenti non vacilli a causa delle prove.
A un certo punto, la preghiera dell’apostolo si trasforma: da preghiera di richiesta diventa una preghiera di ringraziamento. Non ringrazia i credenti per essere fedeli, ma ringrazia Dio che li sostiene e li rende forti nelle prove e nelle difficoltà della vita.
Perciò, i credenti di Tessalonica sono ricordati dall’apostolo Paolo, nelle sue preghiere, per:
Testo della predicazione: Atti 3,1-10
Mentre Pietro e Giovanni salivano al tempio in occasione della preghiera dell'ora nona, un tale, zoppo dalla nascita, veniva portato lì. Ogni giorno lo ponevano vicino alla porta del tempio detta “Bella”, per chiedere l'elemosina a quelli che entravano nel santuario. Questi, vedendo Pietro e Giovanni sul punto di entrare nel santuario, chiese loro l'elemosina. Allora Pietro, insieme a Giovanni, fissato lo sguardo su di lui, disse: «Guardaci!» Ed egli aspettandosi di ricevere qualcosa da loro, li osservava. Pietro disse: «Non possiedo argento e oro, ma quel che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, alzati e cammina!» Lo prese allora per la mano destra e lo fece alzare. Immediatamente, i suoi piedi e le sue caviglie acquistarono vigore. Con un balzo si mise in piedi e cominciò a camminare. Poi, entrò con loro nel tempio camminando, saltando e lodando Dio. E tutto il popolo lo vide camminare e lodare Dio. Lo riconoscevano, infatti, come colui che stava seduto a chiedere l'elemosina accanto alla porta "Bella" del tempio, e furono colmi di stupore e di smarrimento per quanto gli era successo.
Sermone
Care sorelle e cari fratelli, il centro del racconto che abbiano ascoltato è la parola che Pietro rivolge allo zoppo: «Nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, alzati cammina».
Pietro e Giovanni si recano nel tempio per pregare e, attraversando una delle porte del tempio, incontrano un paralitico, così fin dalla nascita, che chiede l’elemosina. Ma i due apostoli non hanno soldi, non hanno delle monete d’argento o d’oro da dare all’uomo che ha pur bisogno di sopravvivere non potendo lavorare. Non riceve la pensione d’invalidità civile!!!
I due possono passare oltre, far finta di niente, cambiare strada, evitare l’uomo. Non poter aiutare spesso ci fa sentire mancanti. Ma se i due apostoli avessero avuto dei soldi con sé avrebbero potuto assolvere a un loro dovere, come tutti gli altri, e sentirsi sufficientemente buoni e altruisti.
Eppure, tante volte non ci rendiamo conto di quanto smorziamo l’amore, la compassione e la tenerezza quando deleghiamo al denaro, alla nostra offerta o a un regalo anche prezioso, il nostro amore, le nostre attenzioni, i nostri affetti, le nostre cure. In fondo l’elemosina non ci impegna a farci carico dell’altra persona, non ci impegna come persone, come credenti, ma mantiene quella certa distanza per non essere troppo coinvolti in un rapporto, in una relazione che potrebbe sfociare in qualche legame forte.
Pietro e Giovanni si sentono chiamati invece a instaurare un rapporto umano e un vincolo forte di solidarietà.
Testo della predicazione: Filippesi 2,1-4
«Se c'è, dunque, una consolazione in Cristo, se c'è un incoraggiamento d'amore, se c'è una comunione di Spirito, se ci sono sentimenti di compassione e di misericordia, colmate la mia gioia avendo lo stesso pensiero, lo stesso amore e un solo animo; pensando un'unica cosa, non facendo nulla per ambizione o vanagloria, ma in umiltà. Stimate gli altri superiori a voi stessi, cercando ciascuno non il proprio bene, ma anche quello degli altri».
Sermone
Cari fratelli e care sorelle, è dal carcere di Efeso che l’apostolo Paolo scrive questa lettera alla chiesa della città di Filippi. È dalla prigionia che rivolge un accorato appello a quella comunità che ha visto nascere e crescere, una comunità il cui affetto e amore supera ogni altra. Eppure anche la comunità dei filippesi è provata, sta subendo duri attacchi e persecuzioni dal mondo pagano, ma la sua fede è forte, incrollabile e l’apostolo sa che in momenti difficili come questi il fatto di continuare a vivere e a testimoniare l’Evangelo della libertà e dell’amore di Cristo significa vivere della grazia di Dio.
Nonostante la comunità cristiana di Filippi abbia una buona testimonianza tra il mondo cristiano, è ad essa che l’apostolo si rivolge in tono supplichevole: «colmate la mia gioia avendo lo stesso pensiero, lo stesso amore, e un solo animo, pensando un’unica cosa». Possono sembrare le parole di un padre che desidera che i suoi figli non litighino tra loro e che vivano d’amore e d’accordo.
Ma la comunità dei credenti non è una semplice famiglia alla quale si possono applicare tutti quei principi che la regolano e ad essa si richiamano; perché in ogni famiglia, benché unita, ognuno poi prende la propria strada, segue il proprio destino, i figli prendono mogli, le figlie mariti, e formano altri nuclei famigliari.
L’apostolo Paolo, in realtà, si rivolge a una comunità di credenti chiamata a essere e a vivere in modo autenticamente evangelico. Questo è l’appello dell’apostolo: si appella all’amore che è fondato su Cristo e a partire dal quale ogni rapporto umano cambia, perché l’amore permette di dialogare da pari a pari, senza ritenersi superiori, senza interessi personali, senza spirito di parte.
Testo della predicazione: Genesi 12,1-4a
Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò; io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra». Abramo partì, come il Signore gli aveva detto.
Sermone
Care sorelle e cari fratelli, quante volte abbiamo avvertito un senso di insicurezza dovendo fare un trasloco, oppure trasferendoci da una città all’altra. Prepararci per una partenza che potrà cambiare il nostro futuro ci mette ansia, un senso di incertezza e di precarietà.
Quello che accade ad Abramo e Sara è la stessa cosa, devono partire, a loro è dato un comando perentorio da parte di Dio: «Va’ via dal tuo paese». Quello che sta accadendo è che Dio decide di dar vita a una nuova comunità umana, che comincia con un porsi in cammino. Dio ha chiamato all’esistenza il mondo, e ora chiama Abramo e Sara a creare un futuro nuovo, radicalmente diverso dal passato e dal presente. Abramo e Sara sono disponibili, rispondono con fede, la fede è quella capacità di accogliere il futuro annunciato da Dio.
Ma non sarà facile.
Dio dice ad Abramo: «Io farò di te una grande nazione», gli promette una discendenza, ma ora questa discendenza è destinata ad annullarsi, perché sua moglie Sara è sterile. Il testo non spiega le cause della sterilità di Sara, si limita soltanto a riferire che questa famiglia, e con essa tutta la discendenza di Abramo, ha esaurito il suo futuro, è giunta al termine della sua storia. Per Abramo e Sara non c’è nessuna speranza, nessun futuro in vista.
La sterilità espressa in questo racconto manifesta la condizione dell’umanità priva di speranza. Dio ha a che fare con questa realtà umana sterile. La sterilità nella Bibbia non è un caso isolato: non colpisce soltanto Sara, ma anche Rebecca la moglie di Isacco, Rachele la moglie di Giacobbe, e la profetessa Anna che sarà la madre di Samuele, ma anche Elisabetta la madre di Giovanni Battista: donne tutte sterili.
La metafora della sterilità annuncia che la famiglia inizia la sua vita in una situazione di irreparabile assenza di speranza. È qui, in questa realtà, che Dio si fa vivo e presente con le sue promesse.