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Testo della predicazione: Marco 10, 35-38. 42-45

«Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, si avvicinarono a lui, dicendogli: «Maestro concedici di sedere uno alla tua destra e l’altro alla tua sinistra nella tua gloria». Ma Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete (...) Voi sapete che quelli che son reputati principi delle nazioni le signoreggiano e che i loro grandi le sottomettono al loro dominio. Ma non è così tra di voi; anzi, chiunque vorrà essere grande fra voi, sarà vostro servitore; e chiunque, tra di voi, vorrà essere primo sarà servo di tutti. Poiché anche il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire, e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti».

Sermone

Care sorelle e cari fratelli, il brano biblico alla nostra attenzione si pone tra l’annuncio della morte di Gesù, il terzo, e il senso della morte di Gesù, del perché è venuto Gesù al mondo e perché è morto.

Due fratelli, Giacomo e Giovanni, discepoli di Gesù, gli chiedono di sedere, uno a destra e uno a sinistra della sua gloria, quando sarà manifestato il Regno di Dio. Gesù risponde con una frase che oggi tradurremmo così: «Voi non avete capito niente».

In realtà l’evangelista Marco sta mettendo a confronto quelli che sono i pensieri umani e quelli di Dio; si contrappongono, partono da una logica diversa, da cui però si può guarire; il cambiamento è possibile, infatti è la conversione quella che è annunciata nel vangelo di Marco.

Il lettore del vangelo di Marco è continuamente confrontato con l’esigenza della conversione: il fraintendimento dei discepoli e il “non aver capito nulla”, sono le condizioni in cui si trova il lettore, cioè noi, che viene così interrogato dalla Parola di Gesù e risponde chiedendogli di essere soccorso nella sua incredulità.

I due fratelli Giacomo e Giovanni, chiedono di diventare i primi, non nel presente ma nel futuro. Chiedono di sedere sui troni sui quali siederanno coloro che saranno deputati a giudicare. Non chiedono di partecipare alla gloria di Gesù, ma di occupare i primi posti, fregandosene di tutti gli altri compagni, discepoli, come loro, dello stesso maestro. Ovviamente, la loro richiesta fa scoppiare l’indignazione degli altri compagni e rompe la comunione all’interno del gruppo dei discepoli.

Gesù risponde “voi non avete capito nulla”.

Che cosa non avevano capito?

Testo della predicazione: Giovanni 13,1-17

Era ormai vicina la festa ebraica della Pasqua. Gesù sapeva che era venuto per lui il momento di lasciare questo mondo e tornare al Padre. Egli aveva sempre amato i suoi discepoli che erano nel mondo, e li amò sino alla fine. All’ora della cena, il diavolo aveva già convinto Giuda (il fi glio di Simone Iscariota) a tradire Gesù. Gesù sapeva di aver avuto dal Padre ogni potere; sapeva pure che era venuto da Dio e che a Dio ritornava. Allora si alzò da tavola, si tolse la veste e si legò un asciugamano intorno ai fi anchi, versò l’acqua in un catino, e cominciò a lavare i piedi ai suoi discepoli. Poi li asciugava con il panno che aveva intorno ai fianchi. Quando arrivò il suo turno, Simon Pietro gli disse: Signore, tu vuoi lavare i piedi a me? Gesù rispose: Ora tu non capisci quello che io faccio; lo capirai dopo. Pietro replicò: No, tu non mi laverai mai i piedi! Gesù ribatté: Se io non ti lavo, tu non sarai veramente unito a me. Simon Pietro gli disse: Signore, non lavarmi soltanto i piedi, ma anche le mani e il capo. Gesù rispose: Chi è già lavato non ha bisogno di lavarsi altro che i piedi. È completamente puro. Anche voi siete puri, ma non tutti. Infatti, sapeva già chi lo avrebbe tradito. Per questo disse: ‘Non tutti siete puri’. Gesù terminò di lavare i piedi ai discepoli, riprese la sua veste e si mise di nuovo a tavola. Poi disse: ‘Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate Maestro e Signore, e fate bene perché lo sono. Dunque, se io, Signore e Maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Io vi ho dato un esempio perché facciate come io ho fatto a voi. Certamente un servo non è più importante del suo padrone e un ambasciatore non è più grande di chi lo ha mandato. Ora sapete queste cose; ma sarete beati quando le metterete in pratica

Sermone

Cari fratelli, care sorelle,

Abbiamo letto quest’episodio che ha luogo all’inizio delle celebrazioni della Pasqua Ebraica. Ci può sembrare strano che solo Giovanni  ne parla, mente gli altri tre evangelisti raccontano dell’istituzione di quello che noi chiamiamo come la Santa Cena.  Ci fa pensare che per Giovanni, questo atto di Gesù era qualcosa di molto importante – importante quanto condividere con lui il pane e il vino.

Era abitudine di un servo o di una serva quella di lavare i piedi del padrone di casa e dei suoi invitati; tale lavaggio era sempre necessario a causa delle strade piene di polvere nel tempo bello e di fango nella stagione delle piogge.  I poveri, ai tempi di Gesù, andavano spesso a piedi nudi e comunque neppure i sandali, (una  semplice suola con 2 o 3 cinghie) proteggevano molto!

Ma  noi abbiamo letto che Gesù, durante la cena «...si alzò da tavola, si tolse la veste e si legò un asciugamano intorno ai fianchi, versò l’acqua in un catino, e cominciò a lavare i piedi ai suoi discepoli..». Allora, viene da pensare che Gesù non lavasse i piedi solo perché erano impolverati o infangati.

Perché questo gesto?

In un mondo che non aveva i mezzi visivi di comunicazione che abbiamo noi, spesso troviamo nella Bibbia che i profeti o i maestri usavano un gesto o un oggetto per farsi capire o per dare un messaggio importante da parte di Dio. E anche Gesù fa così – anche Gesù, come i profeti che usavano "l’animazione teologica"!

Testo della predicazione: Giovanni 12,20-26

«Tra quelli che salivano alla festa per adorare c'erano alcuni Greci. Questi dunque, avvicinatisi a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, gli fecero questa richiesta: «Signore, vorremmo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea; e Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro, dicendo: «L'ora è venuta, che il Figlio dell'uomo dev'essere glorificato. In verità, in verità vi dico che se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita, la perde, e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà in vita eterna. Se uno mi serve, mi segua; e là dove sono io, sarà anche il mio servitore; se uno mi serve, il Padre l'onorerà».

Sermone

Cari fratelli e care sorelle, Gesù pronuncia queste parole nella consapevolezza di ciò che lo attende, la sua morte in croce. Cerca di rivelarlo ai suoi discepoli e qui ricorre all’immagine del seme, un seme che è secco, senza vita, è morto quando lo si sotterra, ma poi produce il suo frutto, un frutto abbondante.

Gesù vuole rendere attenti i suoi interlocutori sul fatto che la sua morte è necessaria perché essi vivano, perché l’umanità viva di una vita vera. Gesù annuncia la vita per tutti attraverso un gesto gratuito con il quale si fa dono di sé, un gesto sul quale sembra prevalere solo la morte e la distruzione di un corpo, mentre esso tornerà a vivere per dare speranza a tutto il mondo.

Il granello di frumento, in sé, è qualcosa di insignificante, fintanto che resta lì, solo, fintanto che non viene seppellito, dentro la terra; ed ecco che, così com’è, secco, senza vita, a contatto con la terra, porta frutto: nel portare frutto c’è sempre una relazione con l’altro, con l’altra persona, è la relazione che fa rivivere, che rende vivo anche ciò che era morto. È la nostra relazione con Dio e con il prossimo che ci rende vivi davvero.

Questa è la vita per Gesù, una vita nella quale condividiamo con l’altro/a la nostra esistenza, una vita nella quale ci può essere dialogo, comunicazione, confronto, incontro.

È tutto questo che Gesù vuole spiegare ai suoi discepoli, perché è su questa relazione con Dio e il prossimo che è possibile credere, essere cristiani autentici. Questo è il maestro che incontra i suoi discepoli, questo è il Gesù che incontra noi, il Cristo che vuole incontrare il mondo.

Nell’incontro si esprime tutto il proprio amore, il proprio donarsi all’altro/a; la vita è tale perché è portatrice di frutti, frutti che portano speranza, frutti che portano fiducia, comprensione reciproca, rispetto, diritti, solidarietà, libertà.

Si tratta di servizio vicendevole!

Testo della predicazione: Luca 9,57-62

«Mentre camminavano per la via, qualcuno gli disse: «Io ti seguirò dovunque andrai». E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno delle tane e gli uccelli del cielo dei nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». A un altro disse: «Seguimi». Ed egli rispose: «Permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Ma Gesù gli disse: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; ma tu va’ ad annunziare il regno di Dio». Un altro ancora gli disse: «Ti seguirò, Signore, ma lasciami prima salutare quelli di casa mia». Ma Gesù gli disse: «Nessuno che abbia messo la mano all’aratro e poi volga lo sguardo indietro, è adatto per il regno di Dio».

Sermone

Care sorelle e cari fratelli, in questa terza domenica del tempo di Passione, ci è proposto un testo sul tema del discepolato, del seguire Gesù. Un tema che spesso si sente ascoltare nelle predicazioni, perché la Parola di Dio definisce, spesso, i credenti, membri della comunità, discepoli. Così gli Atti degli Apostoli ci informano che «la Parola di Dio si diffondeva, e il numero dei discepoli si moltiplicava grandemente» (Atti 6,7) e che «ad Antiochia, per la prima volta, i discepoli furono chiamati cristiani» (11,26).

Discepoli sono coloro che si pongono al seguito del loro maestro, imparano da lui, si formano. In genere accade che il discepolo, una volta formato, diventi autonomo, indipendente, mentre è una originalità cristiana che i discepoli restino tali per sempre. Perché? Perché il loro maestro è Dio stesso, e fino a quando i discepoli non diventino Dio… resteranno tali.

Nel brano alla nostra attenzione, ci sono tre personaggi, di cui non sappiamo il nome, che esprimono tutta la loro intenzione e la passione di seguire Gesù, di imparare da lui, di porsi al suo seguito. E Gesù li rende attenti circa il loro futuro, che cosa li aspetta.

Il primo dei tre aspiranti discepoli, sotto l’onda di un grande entusiasmo, si propone affermando: «Ti seguirò ovunque andrai». Ma Gesù smorza il suo entusiasmo ricordandogli che ci sono animali e uccelli che hanno un nido, una tana, una dimora, ma non Gesù e neppure chi lo segue. Gesù sottolinea che la strada del discepolato può essere, appunto, un cammino, non una comoda poltrona sotto un tetto ben coibentato; il discepolato è caratterizzato da un cammino, senza soste, senza lunghe fermate, è una vita segnata dalla fragilità di chi non ha una fissa dimora, di chi non ha sa sicurezza e la protezione di una casa.

Testo della predicazione: 2 Timoteo 1,7-10

«Dio ci ha dato uno spirito non di timidezza, ma di forza, d’amore e di autocontrollo. Non aver dunque vergogna della testimonianza del nostro Signore, né di me, suo carcerato; ma soffri anche tu per il vangelo, sorretto dalla potenza di Dio. Egli ci ha salvati e ci ha rivolto una santa chiamata, non a motivo delle nostre opere, ma secondo il suo proposito e la grazia che ci è stata fatta in Cristo Gesù fin dall'eternità, ma che è stata ora manifestata con l’apparizione del Salvatore nostro Cristo Gesù, il quale ha distrutto la morte e ha messo in luce la vita e l’immortalità mediante il Vangelo».

Sermone

Care sorelle e cari fratelli, il brano biblico che abbiamo ascoltato rivela tre punti essenziali. Il primo punto è: Dio ti ha dato il suo Spirito; il secondo: non vergognarti della testimonianza al Vangelo; il terzo: Dio ti ha rivolto una chiamata.

Cerchiamo dunque di capire il senso di questi tre punti.

Primo punto: Dio ti ha dato il suo Spirito.

Questa frase è arricchita di ulteriori spiegazioni: l’autore spiega di quale Spirito si tratta, qual è lo scopo dello Spirito, cosa significa ricevere lo Spirito.

Sì, Dio ti ha donato il suo Spirito, ma Dio non ti dona uno Spirito di timidezza, perché tu hai ricevuto uno Spirito che ti permette di superare il timore, la paura, i tentennamenti e le esitazioni che bloccano, isolano, ingessano e immobilizzano il credente, ma anche la chiesa. Lo Spirito del Signore ti permette, invece, di fare delle scelte che cambiano la tua vita, di compiere passi in direzioni nuove e, a volte, anche direzioni ignote, ma che danno senso al tuo cammino, perché ti mettono in movimento verso gli altri, piuttosto che rinchiuderti in te stesso/a.

Lo Spirito ti permette di non arrenderti quando sembra che non ci siano vie d’uscita al dramma, alla disgrazia che si presenta davanti a te, quando sembra che tutto il mondo ti stia crollando addosso, quando non riesci più a poggiare i piedi su un terreno sicuro, quando smarrisci l’orientamento perché non hai le risposte alle tue domande, quando le tue ginocchia diventano sempre più vacillanti e la tua debolezza ti incoraggia a cedere, a rinunciare, quando la sfiducia nelle persone che ti hanno ferito e tradito sembra l’unico atteggiamento dettato dal buon senso.

Lo Spirito ti sostiene quando attraversi una difficoltà famigliare grave, o una situazione sociale difficile, non riesci a far fronte alla tua carenza finanziaria, o ciò che accade attorno a te ti fa dubitare dell’amore di Dio.

Lo Spirito dona la capacità e la forza (non la timidezza) di non arrendersi, mai! Lo Spirito permette la preghiera, ma anche di alzare le ginocchia per andare incontro gli uni verso gli altri; per questo l’apostolo parla di uno Spirito di forza, di amore e di saggezza.

Testo della predicazione: Giovanni 15,12–17

«Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi. Nessuno ha amore più grande di quello di dar la sua vita per i suoi amici. Voi siete miei amici, se fate le cose che io vi comando. Io non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo signore; ma vi ho chiamati amici, perché vi ho fatto conoscere tutte le cose che ho udite dal Padre mio. Non siete voi che avete scelto me, ma sono io che ho scelto voi, e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; affinché tutto quello che chiederete al Padre, nel mio nome, egli ve lo dia. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri»

Sermone

Il 17 febbraio ricordiamo l’ottenimento dei diritti civili nel 1848. L’Editto di emancipazione ci riconobbe come parte integrante della comunità nazionale italiana, non ancora costituita in tutta la penisola, ma che ci si preparava a fare con il Risorgimento. Fu l’ottenimento della libertà, cui seguì, pochi giorni dopo, quella degli ebrei italiani e solo dopo, il 6 marzo, fu promulgato lo Statuto, che fu la prima costituzione italiana per 100 anni, fino a quella repubblicana del 1948. Sappiamo che non si trattò di una libertà a tutto tondo: ne era esclusa la libertà di religione al di fuori del ghetto alpino, questa l’abbiamo conquistata faticosamente col tempo.

Dopo secoli di sofferenza e ghettizzazione, non si trattava di prendersi alcuna rivincita, non si trattava di rendere male per male, oltraggio per oltraggio, ma, al contrario, "benedire" (I Pietro 3,9). Che cosa significava "benedire" per quella generazione? Significava adoperarsi per portare, in quella che poi sarebbe diventata l’Italia, un progetto liberatore da un cristianesimo oscurantista e autoritario.

Testo della predicazione: Matteo 20,1-16

«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa, il quale, sul far del giorno, uscì a prendere a giornata degli uomini per lavorare la sua vigna. Si accordò con i lavoratori per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscì di nuovo verso l'ora terza, ne vide altri che se ne stavano sulla piazza disoccupati, e disse loro: "Andate anche voi nella vigna e vi darò quello che sarà giusto". Ed essi andarono. Poi, uscito ancora verso la sesta e la nona ora, fece lo stesso. Uscito verso l'undicesima, ne trovò degli altri in piazza e disse loro: "Perché ve ne state qui tutto il giorno inoperosi?" Essi gli dissero: "Perché nessuno ci ha presi a giornata". Egli disse loro: "Andate anche voi nella vigna". Fattosi sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: "Chiama i lavoratori e dà loro la paga, cominciando dagli ultimi fino ai primi". Allora vennero quelli dell'undicesima ora e ricevettero un denaro ciascuno. Venuti i primi, pensavano di ricevere di più; ma ebbero anch'essi un denaro per ciascuno. Perciò, nel riceverlo, mormoravano contro il padrone di casa dicendo: "Questi ultimi hanno fatto un'ora sola e tu li hai trattati come noi che abbiamo sopportato il peso della giornata e sofferto il caldo". Ma egli, rispondendo a uno di loro, disse: "Amico, non ti faccio alcun torto; non ti sei accordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare a quest'ultimo quanto a te. Non mi è lecito fare del mio ciò che voglio? O vedi tu di mal occhio che io sia buono?"  Così gli ultimi saranno primi e i primi ultimi».

Sermone

Care sorelle e cari fratelli, la parabola dei lavoratori che vengono assunti dal padrone della vigna in diverse ore della giornata percependo tutti lo stesso salario, ha sempre imbarazzato i lettori e suscitato un senso di disagio, perché la parabola non rispetta le più elementari leggi di equità. Non si può certo parlare di una le­zione di giustizia sociale. Qui, a parità di lavoro, c’è chi è pagato di più e chi di meno. Oggi noi siamo tutti contro quegli stipendi delle donne che, a parità di ore e di rendimento, sono pagate meno rispetto a quelli degli uomini.

Ma allora qual è il messaggio di questa parabola? Esaminiamola insieme.

Il padrone di una vigna al tempo della vendemmia, all’alba, verso le sei del mattino, si reca in piazza per ingaggiare alcuni lavoratori a giornata. Si accorda con loro e stabilisce la paga: un denaro. Quegli uomini avrebbero lavorato fino al tramonto, per circa 12 ore. Ma verso le nove, all’ora del mercato, il padrone torna in paese e, in piazza, vede altri disoc­cupati che manda a lavorare alla sua vigna: anche questi lavoreranno fino al tramonto per circa nove ore. Torna in piazza a mezzogiorno, poi alle tre e alle cinque, un’ora prima del tramonto, sempre trova dei disoccupati che nessuno ha preso a giornata, e li manda a vendem­miare nella sua vigna.

Al tramonto la giornata di lavoro termina, c’è chi ha lavorato per dodici ore, sotto il peso del caldo e del lungo lavoro, chi per nove ore, chi sei, chi tre e chi una sola ora. Ma tutti ricevono la stessa identica paga: un denaro.

Testo della predicazione: Matteo 17,1-9

«Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello, e li condusse sopra un alto monte, in disparte. E fu trasfigurato davanti a loro; la sua faccia risplendette come il sole e i suoi vestiti divennero candidi come la luce. E apparvero loro Mosè ed Elia che stavano conversando con lui. E Pietro prese a dire a Gesù: «Signore, è bene che stiamo qui; se vuoi, farò qui tre tende; una per te, una per Mosè e una per Elia». Mentre egli parlava ancora, una nuvola luminosa li coprì con la sua ombra, ed ecco una voce dalla nuvola che diceva: «Questo è il mio Figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto; ascoltatelo». I discepoli, udito ciò, caddero con la faccia a terra e furono presi da gran timore. Ma Gesù, avvicinatosi, li toccò e disse: «Alzatevi, non temete». Ed essi, alzati gli occhi, non videro nessuno, se non Gesù tutto solo. Poi, mentre scendevano dal monte, Gesù diede loro quest’ordine: «Non parlate a nessuno di questa visione, finché il Figlio dell’uomo sia risuscitato dai morti».

Sermone

Care sorelle e cari fratelli, il racconto di oggi, narra di Gesù che sale su un alto monte con i suoi discepoli per stare in disparte. Là accade un evento straordinario che il nostro brano chiama trasfigurazione. Improvvisamente il volto di Gesù diventa luminoso come il sole e le sue vesti candide come luce. Si tratta di una immagine ricorrente nella letteratura apocalittica per raffigurare la divinità del Messia, del Figlio di Dio che viene a liberare il popolo dei credenti assoggettato alla dominazione, al male. 

     Con Gesù appaiono Mosé ed Elia che conversano tra loro. Cosa rappresentano i personaggi della trasfigurazione? Mosè rappresenta certamente la Torah, la legge che Dio gli diede sul monte Sinai perché il popolo l’osservasse per il suo bene, per mantenere la libertà che Dio gli aveva appena donato, libertà dalla schiavitù in Egitto. Elia rappresenta la profezia con cui Dio si rivelava e parlava a Israele. Torah e profezia: i due modi in cui Dio si è rivelato nell’Antico Testamento, i due modi della Parola di Dio; qui è contenuta tutta la rivelazione di Dio fino a Gesù, il Cristo, il Messia che ancora deve essere rivelato pienamente nella sua risurrezione, non ancora avvenuta, ma che la trasfigurazione rivela, la anticipa.

     Ecco, in Gesù, la rivelazione di Dio assume la sua completezza, la sua pienezza, Gesù è il compimento di tutta la legge e di tutte le profezie.

     Questo messaggio accade su un alto monte, che rappresenta il Sinai, il luogo dell’incontro con Dio.

Qui accade la nuova manifestazione di Dio: in Cristo, Dio è presente, è visibile, è concretamente vicino, tanto che Pietro afferma: «Che bello stare qui! Montiamo delle tende e ci fermiamo qui». Il malinteso è sempre in agguato, l’incomprensione e l’equivoco sono pronti a deviare la nostra attenzione da ciò che è importante, dal messaggio che ci è annunziato.

     Ed è proprio di fronte al malinteso, mentre Pietro parla, che Dio giunge con la sua presenza: una nuvola luminosa giunge e avvolge i tre, li nasconde dentro la sua luce; il testo dice che li compre con la sua ombra, ovvero la sua opacità luminosa. È dalla nuvola che Dio parla e ripete le parole che si odono nel battesimo di Gesù «Questo è il mio amato figlio nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo».

Testo della predicazione: Luca 15,1-7

«Tutti i pubblicani e i peccatori si avvicinavano a lui per ascoltarlo. Ma i farisei e gli scribi mormoravano, dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, avendo cento pecore, se ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e non va dietro a quella perduta finché non la ritrova? E trovatala, tutto allegro se la mette sulle spalle; e giunto a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: "Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la mia pecora che era perduta". Vi dico che così ci sarà più gioia in cielo per un solo peccatore che si ravvede, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di ravvedimento».

Sermone

Care sorelle, cari fratelli, care bambine e cari bambini della Scuola domenicale, Gesù racconta la parabola della pecora che si smarrisce per dirci quanto Dio ci vuole bene, quanto ci ami; ci dice che quando siamo in pericolo viene a prenderci per avere cura di noi, ci cerca quando non riusciamo a ritrovare la strada per tornare a casa.

L’immagine della pecora è molto bella perché la pecora non è un animale che, in genere, vive da solo, ma vive insieme al gregge, insieme ad altre pecore come lei, e insieme seguono il loro pastore, hanno fiducia in lui, sanno che non le porterà in posti pericolosi dove pascolare, ma in prati sicuri.

Tutti abbiamo fiducia dei nostri genitori, perché ci vogliono bene e, anche quando, per esempio, vi chiedono di fare qualcosa che non volete fare, lo fanno per il vostro bene, per aiutarvi a crescere, a imparare, a diventare dei bravi adulti.

Il gregge è come la nostra famiglia, anche noi abbiamo bisogno di vivere insieme ad altre persone, condividere le nostre gioie, le nostre tristezze, quando stiamo male, quando abbiamo bisogno di essere consolati, rassicurati, sappiamo che l’amore all’interno della famiglia supererà tutti i problemi che si presenteranno lungo il cammino della nostra vita.

Ecco, l’amore è il fondamento di ogni famiglia, come anche della chiesa, della comunità dei credenti; amare ed essere amati ci fa vivere bene, bene con noi stessi e con gli altri, l’amore ci permette di chiedere scusa quando sbagliamo e di essere perdonati; l’amore ci permette di perdonare le persone che ci hanno offeso, che ci hanno ferito, che ci hanno fatto del male.

Qualche volta, però, ci smarriamo anche noi, come la pecora della parabola; ci allontaniamo dal gregge perché pensiamo di vivere bene da soli, di non avere bisogno di stare con gli altri, di non avere bisogno dei loro abbracci, del loro sorriso, del loro incoraggiamento, dei loro consigli.

Ma presto ci rendiamo conto che da soli si diventa tristi; senza nessuno a cui raccontare la nostra giornata, le nostre ore di scuola, di lavoro, sentiamo che ci manca qualcosa: sentiamo un vuoto che ci fa stare tanto male.