Culto domenicale:
ore 10,00 Tempio dei Bellonatti

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Bellonatti

Archivio dei sermoni domenicali

Testo della predicazione: Galati 5,16-25

Io dico: camminate secondo lo Spirito e non adempirete affatto i desideri della carne. Perché la carne ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; sono cose opposte tra di loro; in modo che non potete fare quello che vorreste. Ma se siete guidati dallo Spirito, non siete sotto la legge. Ora le opere della carne sono manifeste, e sono: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregoneria, inimicizie, discordia, gelosia, ire, contese, divisioni, sètte, invidie, ubriachezze, orge e altre simili cose; circa le quali, come vi ho già detto, vi preavviso: chi fa tali cose non erediterà il regno di Dio. Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, autocontrollo; contro queste cose non c'è legge. Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. 25 Se viviamo dello Spirito, camminiamo anche guidati dallo Spirito.

Sermone

Cari fratelli e care sorelle, come protestanti facciamo fatica ad accettare la serie di cataloghi contenuti nel brano biblico alla nostra attenzione, cataloghi che ci indicano ciò che possiamo e non dobbiamo fare; ci mettono perfino in imbarazzo perché escludono la nostra coscienza e la nostra libertà di compiere scelte responsabili, ci obbligano ad andare in un’unica direzione, e non ci permettono di riflettere sulle situazioni che siamo chiamati ad affrontare lungo la nostra strada.

Eppure, anche l’apostolo Paolo è d’accordo con noi, quindi cerchiamo di capire che cosa vuole dirci in questo brano.

L’apostolo prende qui in considerazione il tema della volontà di Dio e quella nostra, prende in esame il modo di vivere la nostra vita come credenti quando è ispirata dallo Spirito e quando è ispirata dalla nostra volontà, dai nostri desideri umani, dal nostro egoismo.

Il risulto della riflessione di Paolo è che i due modi non sono conciliabili, sono due strade opposte tra loro, vanno in direzioni opposte e portano lontano, a risultati completamente diversi.

I desideri umani sono chiamati dall’apostolo “carne” con una accezione negativa, che significa essere schiavi, non riuscire a liberarsi, significa vivere e produrre opere malvagie, che fanno male al prossimo, a chi ci è vicino o lontano, opere che infliggono violenza, producono inimicizie, abbattono ponti, interrompono relazioni, promuovono divisioni, discordie, conflitti, aggressività, cultura di morte.

Testo della predicazione: Matteo 6,24

«Nessuno può servire due padroni, perché odierà l’uno e amerà l’altro, o avrà riguardo per l’uno e disprezzo per l’altro. Voi non potete servire Dio e Mammona».

Sermone

Cari fratelli e care sorelle, a nessuno di noi piacerebbe avere un padrone, essere servi di qualcuno. Spesso i capi dell’ambiente lavorativo che si comportano da padroni sono sempre un po’ invisi, se non odiati. A volte, non sono neppure padroni dell’azienda, ma solo dei superiori a cui si deve obbedienza. Qui Gesù, addirittura, deve sottolineare con forza che nessuno deve avere due padroni, ma che ce ne basta uno solo.

Voi sapete che c’è chi dice che la poligamia nella Bibbia non è stata mai proibita e che neppure Gesù l’abbia fatto. Quando, dunque, un protestante incontrò un mormone che insisteva sul fatto che non esiste un’imposizione della monogamia nella Bibbia, il protestante rispose: «Certo che Gesù proibisce la poligamia, proprio là dove dice che un uomo non può servire due padroni».

È una battuta!

Tornando seriamente al nostro testo, dobbiamo constatare che la Bibbia non propone mai l’antitesi tra servire qualcuno oppure essere liberi; la scelta non è tra porsi al servizio di Dio, o al servizio del peccato, o per proprio conto, come se ci fosse una terra di nessuno, una zona neutrale dove collocarsi. L’apostolo Paolo è chiaro, non sono tre le scelte, ma due: servire chi conduce alla morte, e cioè il peccato, oppure servire Dio che dona la libertà: Israele, che è liberato dalla schiavitù dell’Egitto, si pone al servizio di Dio, ed ecco i Dieci comandamenti, ed ecco la Terra promessa, ma il deserto non è un luogo adatto per vivere.

Il servizio, dunque, è il nostro destino, a noi sta la scelta di chi servire. Ma la condizione del servire non è mai un peso impossibile che ci viene posto sulle spalle, è semmai conseguenza dell’amore di Dio per noi che ci offre la possibilità di amare il prossimo e amare il prossimo significa servire il prossimo: con il nostro lavoro, la nostra professionalità, le nostre competenze, la nostra sensibilità gentile, accogliente…

Testo della predicazione: Matteo 5,2-10

Gesù insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di loro è il regno dei cieli. Beati quelli che sono afflitti, perché saranno consolati. Beati i mansueti, perché erediteranno la terra. Beati quelli che sono affamati e assetati di giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché a loro misericordia sarà fatta. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati quelli che si adoperano per la pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per motivo di giustizia, perché di loro è il regno dei cieli».

Sermone


Cari fratelli e care sorelle, le beatitudini, nel Vangelo di Matteo, sono l’apertura della predicazione di Gesù che annuncia il Regno di Dio. Le beatitudini sono legate al Regno di Dio che avanza tra gli esseri umani, sulla terra; i credenti che offrono se stessi, la loro vita, il loro tempo, i loro beni, sono strumenti di Dio nella storia umana, affinché il suo Regno venga davvero. Allora, i poveri, gli afflitti, i mansueti, coloro che hanno fame di giustizia, coloro che hanno misericordia verso gli altri, coloro che hanno un cuore puro, chi costruisce la pace, sono persone chiamate a essere testimoni e annunciatori del Regno di Dio. Tutto questo, perché il «Regno di Dio» non è una ideologia e basta, ma una realtà fatta di uomini e di donne, di figli e figlie di Dio.

Qui «beato» non sta per colui che, dopo morto, è avviato a un processo di beatificazione, ma beati sono i vivi, non i morti. In fondo potremmo anche tradurre la parola beati con «felici» perché Gesù parla di felicità, di gioia. Quindi, le beatitudini sono un invito alla felicità.

Gesù invita la chiesa, noi, a esprimere la felicità che Dio ci offre, non a concentrarci tristemente sui mali che affliggono tutti senza affrontarli con la forza che Dio stesso ci dona, affinché possiamo andare oltre il dolore, la sofferenza, il male, per trovare anche noi la pace e la felicità. Invece, tante volte al culto, non esprimiamo questo, non siamo allegri, mentre Gesù ci chiama ad essere la chiesa delle beatitudini, a riflettere la gioia di Dio.

Testo della predicazione: Matteo 6,19-23

«Non fatevi tesori sulla terra, dove la tignola e la ruggine consumano, e dove i ladri scassinano e rubano; ma fatevi tesori in cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove i ladri non scassinano né rubano. Perché dov’è il tuo tesoro, lì sarà anche il tuo cuore. La lampada del corpo è l’occhio. Se dunque il tuo occhio è limpido, tutto il tuo corpo sarà illuminato; ma se il tuo occhio è malvagio, tutto il tuo corpo sarà nelle tenebre. Se dunque la luce che è in te è tenebre, quanto grandi saranno le tenebre!

Sermone

Cari fratelli e care sorelle, oggi vi propongo un brano che il Corpo pastorale e diaconale del nostro Circuito ha scelto, è il secondo su cinque, sul tema del rapporto tra noi, Dio e i beni materiali. Oggi alla nostra attenzione vi è un brano dal Vangelo di Matteo che fa parte dei discorsi di Gesù raccolti nel “Sermone sul monte”. L’evangelista Matteo raccoglie alcuni detti che trattano, appunto, del valore da attribuire alle cose attorno a noi e alle persone.

Gesù è consapevole che tutti gli esseri umani hanno la tendenza ad accumulare beni e a raccogliere “tesori”, perché danno un senso di sicurezza. Oltre a ciò, è anche vero che le persone attribuiscono un alto valore sociale ad altre persone sulla base delle loro ricchezze e delle cose possedute.

Vi sono società nelle quali si è giudicati in base al bestiame posseduto, in altre società si è giudicati in base a pietre preziose, oro, argento posseduti oppure, nella la nostra epoca, che ha un’economia basata sul denaro, le disponibilità finanziarie permettono a chi le possiede di essere posto su un gradino sociale elevato.

Tali persone acquisiscono considerazione, stima, rispetto, i primi posti, conferimento di privilegi particolari perfino quando si tratta di persone che hanno commesso atti di illegalità o sono stati pure condannati dai tribunali.

«Io non sono nulla» dice l’apostolo Paolo, «Dio è tutto». Del resto, la Scrittura dice: «Tutte le nazioni sono come nulla dinanzi a Dio, egli le reputa meno di nulla, una vanità» (Isaia 40,17). Oggi, molti nostri contemporanei capovolgono questa affermazione nel suo contrario e dicono: «L’uomo è tutto, Dio non è nulla». Ma l’apostolo Paolo dice chiaro e tondo: «Io non sono nulla, Dio è tutto».
Ma è proprio vero che Paolo non è nulla? No, non è vero. Paolo è qualcosa, anzi è molto. Egli dice di sé: «Io ho piantato», cioè ha fondato molte chiese. Una nullità non riesce a fondare chiese come ha fatto Paolo: fondare una chiesa è un’impresa stupenda, per non dire miracolosa. Neppure Apollo, il collega di Paolo nell’apostolato, è nulla: lui infatti «ha annaffiato», cioè ha continuato e sviluppato l’opera di Paolo. Ma allora perché Paolo dice che lui e Apollo sono nulla e che Dio è tutto?

Lo dice perché essi sono sì importanti per piantare e annaffiare, ma sono nulla per la crescita, perché la crescita è unicamente opera sua; Dio è tutto per la crescita, mentre Paolo e Apollo sono tutto per piantare e annaffiare, ma sono nulla per far crescere; ma per far crescere cosa? Per far crescere la chiesa, ovviamente, è della chiesa che qui Paolo sta parlando. Ma l’immagine che egli adopera è tratta da ciò che accade in natura, dove possiamo piantare e annaffiare, ma non possiamo far crescere.

Testo della predicazione: Luca 12,15-21

Poi disse loro: «State attenti e guardatevi da ogni avarizia; perché non è dall'abbondanza dei beni che uno possiede, che egli ha la sua vita». E disse loro questa parabola: «La campagna di un uomo ricco fruttò abbondantemente; egli ragionava così, fra sé: “Che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti?” E disse: “Questo farò: demolirò i miei granai, ne costruirò altri più grandi, vi raccoglierò tutto il mio grano e i miei beni, e dirò all’anima mia: ‘Anima, tu hai molti beni ammassati per molti anni; ripòsati, mangia, bevi, divèrtiti’”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa l’anima tua ti sarà ridomandata; e quello che hai preparato, di chi sarà?” Così è di chi accumula tesori per sé e non è ricco davanti a Dio».

Sermone

Care sorelle, cari fratelli, Gesù apre un argomento alquanto spinoso davanti a una folla che lo ascoltava. Coglie lo spunto da una domanda circa l’eredità di due fratelli, per dire quanto il problema del possedere fosse grande.

È un problema, perché si insinua in modo subdolo, inficiando la nostra vita di elementi che le fanno perdere l’orientamento e perfino il senso. Gesù parla dunque, di avidità di ricchezze, di possesso di denaro, ma anche di potere che si acquista con la ricchezza. Si dice anche oggi: «Chi paga, comanda».

Bisogna anche notare che Gesù non dà nessun giudizio negativo al fatto che questo agricoltore sia ricco o che i suoi campi abbiamo dato un raccolto abbondante. Gesù pone l’accento sull’autoreferenzialità dell’uomo, egli parla solo a se stesso, non vede nessuno oltre a sé, non c’è un orizzonte all’interno del quale ci sia qualcun altro, non c’è un guardare oltre se stesso, non c’è un progetto di vita nel quale sia incluso qualcun altro.

La sua vita appartiene solo a se stesso, i suoi progetti riguardano solo lui. Qualcosa di profondamente sbagliato anche nella cultura ebraica, secondo la quale, tutti apparteniamo a Dio e a lui rivolgiamo la nostra riconoscenza per la vita e per i beni che dci offre per vivere.

Nel racconto, nulla di tutto questo è tenuto in considerazione. Ciò che appare è solo l’uomo e la sua anima con cui egli parla, cioè con se stesso. La ricchezza è fine a se stessa, così come il raccolto, il denaro, la vita stessa; nulla ha uno scopo umano, sociale; nulla ha un riferimento con la vita nel suo insieme, una vita che include il prossimo, gli amici, i famigliari stessi. Certo, l’agricoltore sarà un uomo solo, ma si capisce anche perché è solo: perché non vede altri che se stesso, questo fa la ricchezza, il possesso, non fa vedere oltre se stessi.

Testo della predicazione: Giovanni 11,1-3. 17-27

C’era un ammalato, un certo Lazzaro di Betania, del villaggio di Maria e di Marta sua sorella. Maria era quella che unse il Signore di olio profumato e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; Lazzaro, suo fratello, era malato. Le sorelle dunque mandarono a dire a Gesù: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato». Gesù dunque, arrivato, trovò che Lazzaro era già da quattro giorni nel sepolcro. Betania distava da Gerusalemme circa quattro chilometri, e molti Giudei erano andati da Marta e Maria per consolarle del loro fratello. Come Marta ebbe udito che Gesù veniva, gli andò incontro; ma Maria stava seduta in casa. Marta dunque disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto; e anche adesso so che tutto quello che chiederai a Dio, Dio te lo darà». Gesù le disse: «Tuo fratello risusciterà». Marta gli disse: «Lo so che risusciterà, nella risurrezione, nell'ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; e chiunque vive e crede in me, non morirà mai. Credi tu questo?» Ella gli disse: «Sì, Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che doveva venire nel mondo».

Sermone

«Sì, Signore, io credo che tu sei il Cristo». Il brano che oggi abbiamo ascoltato si conclude con questa confessione di fede pronunciata da una donna, Marta, la sorella di Lazzaro che era morto.

Pronuncia questa confessione di fede davanti alla morte, nel lutto, nel momento in cui ci sentiamo indifesi, feriti e fragili e le nostre domande sfociano nel dubbio, nella rassegnazione, nell’arresa.

Non è ancora accaduto nessun miracolo, nessuna risurrezione di Lazzaro, eppure Marta crede che Gesù sia risurrezione e vita di fronte alla distruzione che la morte provoca e all’annullamento.

«Tuo fratello risusciterà» le aveva detto Gesù. «Sì, lo so che risusciterà nell’ultimo giorno, ma ora è morto, è stato tolto alla vita, ai nostri affetti, al nostro amore», aveva risposto Marta.

Eppure, davanti a tutto ciò, Marta dice: «Sì, Signore, io credo che tu sei il Cristo, che tu sei risurrezione e vita e chi crede in te non morirà mai».

Nonostante questa contraddizione, la confessione di fede di Marta è ferma, perché così è la sua fede; la fede non si basa su segni tangibili, visibili, neppure su miracoli. Paradossalmente, per credere in Gesù Cristo e nel suo messaggio di vita, bisogna guardare alla croce, a quel sepolcro in cui hanno deposto il nostro Signore. Per credere in Gesù bisogna essere convinti del suo amore per noi, una amore tanto grande che non ha paura di andare in contro alla morte perché è un amore che non è fermato da nulla, neppure dalla distruzione più grande che conosciamo.

La croce, dunque è il segno supremo, la rivelazione più grande dell’amore di Dio per noi.

Testo della predicazione: Luca 10,25-37

Un dottore della legge si alzò per mettere Gesù alla prova, dicendo: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?» Gesù gli disse: «Nella legge che cosa sta scritto? Come leggi?» Egli rispose: «Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutta la forza tua, con tutta la mente tua, e il tuo prossimo come te stesso». Gesù gli disse: «Hai risposto esattamente; fa’ questo, e vivrai». Ma egli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?». Gesù rispose: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico, e s’imbatté nei briganti che lo spogliarono, lo ferirono e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso un sacerdote scendeva per quella stessa strada, ma quando lo vide, passò oltre dal lato opposto. Così pure un Levita, giunto in quel luogo, lo vide, ma passò oltre dal lato opposto. Ma un Samaritano, che era in viaggio, giunse presso di lui e, vedendolo, ne ebbe pietà; avvicinatosi, fasciò le sue piaghe versandovi sopra olio e vino, poi lo mise sulla propria cavalcatura, lo condusse a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno dopo, presi due denari, li diede all’oste e gli disse: “Prenditi cura di lui; e tutto ciò che spenderai di più, te lo rimborserò al mio ritorno”. Quale di questi tre ti pare essere stato il prossimo di colui che s’imbatté nei ladroni?» Quegli rispose: «Colui che gli usò misericordia». Gesù gli disse: «Va’, e fa’ anche tu la stessa cosa».

Sermone

Care sorelle e cari fratelli, la parabola del «buon Samaritano» è pronunciata da Gesù in occasione di una discussione con un maestro della legge. La domanda iniziale doveva essere: «Cosa devo fare per avere la vita eterna?» la risposta era: «amare Dio e seguire i suoi comandamenti», ma la domanda essenziale in realtà era un’altra: «Qual è il comandamento più importante da seguire?», questa era la domanda della gente comune ai maestri religiosi, perché troppo difficile era diventato seguire in ogni dettaglio la legge e le innumerevoli pratiche della tradizione.

Gesù spiega che “amare” significa adempiere a tutta la legge, amare Dio e amare gli altri, il prossimo. Da qui sorge l’altra domanda: «Chi è il mio prossimo?».

Al tempo di Gesù il “prossimo” era una persona ap­partenente al popolo di Israele, le altre persone non erano considerate prossimo. Tra ebrei e samaritani vi era un odio profondo perché i due popoli rivendicavano, ciascuno, di essere il vero popolo di Dio. Era dunque lontana l’idea che un samaritano si comportasse in modo amorevole nei confronti di un israelita e viceversa. Anche la donna samaritana al pozzo con Gesù si meraviglia dicendo: «Come mai tu che sei Giudeo chiedi da bere a me, che sono una samaritana?». Gesù, come vedremo, apre orizzonti nuovi.

Testo della predicazione: Matteo 25,14-30

Poiché avverrà come a un uomo il quale, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e affidò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due e a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità; e partì. Subito, colui che aveva ricevuto i cinque talenti andò a farli fruttare, e ne guadagnò altri cinque. Allo stesso modo, quello dei due talenti ne guadagnò altri due. Ma colui che ne aveva ricevuto uno, andò a fare una buca in terra e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo, il padrone di quei servi ritornò a fare i conti con loro. Colui che aveva ricevuto i cinque talenti venne e presentò altri cinque talenti, dicendo: “Signore, tu mi affidasti cinque talenti: ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. Il suo padrone gli disse: “Va bene, servo buono e fedele; sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore”. Poi, si presentò anche quello dei due talenti e disse: “Signore, tu mi affidasti due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. Il suo padrone gli disse: “Va bene, servo buono e fedele, sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore”. Poi si avvicinò anche quello che aveva ricevuto un talento solo, e disse: “Signore, io sapevo che tu sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra; eccoti il tuo”. Il suo padrone gli rispose: “Servo malvagio e fannullone, tu sapevi che io mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; dovevi dunque portare il mio denaro dai banchieri; al mio ritorno avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento e datelo a colui che ha i dieci talenti. Poiché a chiunque ha, sarà dato ed egli sovrabbonderà; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha. E quel servo inutile, gettatelo nelle tenebre di fuori. Lì sarà il pianto e lo stridor dei denti”.

Sermone

Cari fratelli e care sorelle,

vi propongo una ri-lettura, in chiave moderna, della parabola dei talenti, che abbiamo ascoltato nel Vangelo di Matteo.

Vi era un Maestro, di grande fede e intuito, il quale credeva profondamente nel riscatto e nella salvezza dell’umanità. Aveva visto e vissuto tanta violenza e sopraffazione, oppressione e schiavitù; così intraprese la via di una ricerca per insegnare l’arte della pace e della giustizia, nella prospettiva di insegnare agli abitanti della sua terra il segreto per superare la violenza che ognuno ha dentro di sé, la guerra e l’uso delle armi.

Aprì una scuola, il cui ingresso era aperto a tutti, ma per entrare si richiedeva grande dedizione e partecipazione, impegno e coraggio. Il Maestro era molto esigente: non poteva rischiare di fallire quando era in atto un’operazione strategica di diplomazia tra due stati; era estremamente vitale che le parti in causa chiarissero le loro divergenze e si stringessero la mano.

La sua terra andava sempre più verso una deriva da cui non si sarebbe più tornati indietro: i pochi ricchi possedevano 80% delle risorse, i tanti poveri, invece, disponevano di briciole lasciate cadere dalle tavole imbandite dei ricchi. Stava per innescarsi una grande rivolta planetaria degli uni contro gli altri che avrebbe condotto all’autodistruzione.

La sensibilità dei più era ormai anestetizzata dalla TV la cui pubblicità martellante e ossessionante li convinceva che era necessario comprare e possedere sempre di più, consumare e gettare via producendo montagne di rifiuti, difficili persino da smaltire.